La lentezza è una nuova forma di resistenza
in un mondo dove tutto è troppo veloce
e dove il potere più grande è quello di decidere
che cosa fare del proprio tempo
Luis Sepulveda
Viviamo nel tempo del dominio dell’algoritmo, che modellizza e profila le persone, che intreccia dati, affronta problemi complessi, e decide della nostra vita, e che se sbaglia sono dolori. Una deriva riduzionista, secondo Miguel Benasayag, che è un “corollario dell’artefattualizzazione del vivente”1 che è invece senso, relazioni, percezioni, emozioni, comunicazione, interpretazioni, integrazione: un concreto che significa esistere, “ed esistere è conoscere. Ecco ciò che si oppone al paradigma riduzionista (fisicalista) che pretende di poter pervenire a una conoscenza delle essenze e dei suoi funzionamenti al di là delle situazioni di esistenza”. Il pensiero veloce non considera l’umano, ma giudica e decide. Si organizza sulla base di modelli matematici e statistici che utilizzano i Big Data, generando un agire privo di senso, se non quello della ragione strumentale, indifferente alla dimensione esistenziale complessa (emotivo-affettiva) delle persone, spesso producendo o ri-producendo stereotipi e disuguaglianze nei processi decisionali affidati agli algoritmi. Per velocizzare le operazioni e aumentare la produttività, le imprese, la finanza, la medicina, la giustizia, – e la politica nella ricerca del consenso elettorale – utilizzano sempre di più dati e informazioni a scopo predittivo, per formarsi un giudizio, prendere decisioni, offrire servizi, non alla persona in quanto soggetto, ma a profili seriali. Accade così che qualche anno fa il sistema di intelligenza artificiale usato da Amazon per selezionare candidature per le assunzioni, seguendo le istruzioni dell’algoritmo, scartava in automatico i curriculum delle donne, dando luogo a una clamorosa discriminazione. Su questo tema, la rivista Le Scienze scriveva recentemente che “gli algoritmi che permettono a un sistema di intelligenza artificiale di apprendere una lingua da una serie di testi, trasmettono al sistema anche i pregiudizi razziali o di genere che vi possono essere celati. Dunque, la valutazione per esempio di un curriculum da parte di un sistema di IA non sarebbe affatto più imparziale di quella fatta da un essere umano”.2
Viviamo nella società della performance e del capitalismo delle piattaforme, che premia chi arriva più velocemente a prevedere i comportamenti e le aspettative dei consumatori, e di conseguenza a organizzare il lavoro, che nelle dinamiche di mercato tende a perdere dignità, protezione, rappresentanza. E’ una rivoluzione che ci riguarda da vicino scrive Antonio Casilli3, perché trasfigura il lavoro in un gesto semplice, frammentario e pagato sempre meno o perfino nulla, quando a compierlo sono addirittura i consumatori.
Nel tempo dell’algoritmo e della ragione strumentale, l’orologio torna a scandire il tempo dell’esistenza, un tempo monodimensionale, lineare, omologante; un tempo che è “denaro”, contro il quale si corre, e che va “guadagnato, non perduto”, secondo la fredda misurazione contabile di costi e benefici. Un tempo che ha espulso l’eternità, il simbolico, il desiderio, il progetto, l’attesa, la contemplazione, la rinuncia, la libertà, i diritti, il conflitto, e che per questo presenta alti costi sociali, tra i quali il bornout, i suicidi, la depressione, un fenomeno quest’ultimo che Alain Ehrenberger definisce “una patologia del tempo (il depresso è privo di futuro)”, che arriva quando è impossibile ridurre la distanza tra sé e sé, “in un‘esperienza antropologica nella quale l’uomo è l’unico proprietario di se stesso e l’unica fonte della propria azione”4.
La strada da percorrere è liberare e riaprire gli spazi della parola, dell’ascolto, per superare quella “fuga dalla parola” che sta avvenendo nell’era digitale del mondo veloce, dove – come spiega il neurofisiologo Lamberto Maffei – il pensiero rapido è diventato dominante su quello lento, il credere sul pensare e il cervello motorio su quello cognitivo. Le tecnologie digitali sono una grande conquista dell’uomo, ma hanno anche effetti collaterali indesiderati, da considerare seriamente, da prevenire e governare, soprattutto attraverso l’educazione. Come mostra un’indagine svolta dall’Università del Texax su 800 giovani, i cosiddetti iperconnessi crescono meno ribelli, meno felici, completamente impreparati per la vita adulta, e sono esposti al pericolo di un alterato sviluppo delle aree frontali e prefrontali ancora in fase di sviluppo, ed hanno più probabilità di suicidio, omofobia, depressione, e di caduta degli incontri con amici e dell’attività sessuale. Il nostro cervello – ribadisce Maffei – è una macchina lenta, che ha i suoi tempi e la necessità di una sequenza nella sua azione, e “soffre” perciò la delega delle funzioni cerebrali alla tecnologia digitale, con conseguenze neurologiche che portano a un’involuzione, quasi a una morte cerebrale. Peraltro, scrive Maffei: “Il desiderio di emulare le macchine rapide create da noi stessi, a differenza del cervello che invece è una macchina lenta, diventa fonte di angoscia e di frustrazione (…) La netta prevalenza del pensiero rapido, a partire da quello che esprimiamo attraverso l’uso degli strumenti digitali, può comportare soluzioni sbagliate, danni all’educazione e perfino al vivere civile”5. Non si tratta di schierarsi pro o contro le nuove tecnologie, né di rimpiangere tempi andati, quanto di salvaguardare alcune dimensioni vitali per l’uomo e l’ambiente nel quale vive, per evitare che siano le tecnologie digitali a modificare i nostri comportamenti e le distorsioni cognitive a limitare il nostro sapere critico, tenendo in vita la riflessività, il senso, il limite, l’apertura all’inedito, la responsabilità, la ragione poetica, mettendo a tema la domanda posta da Miguel Benasayag: funzionare o esistere? 6. Un insegnamento in questo senso ci viene dall’arte, da un grande pittore italiano qual è stato Piero Guccione, che parlava della lentezza come un’assoluta peculiarità del suo lavoro.:“ mi ricordo di alcuni paesaggi, che non sono esposti in questa mostra; dei paesaggi campestri, dei luoghi che stavano in Sicilia, vicino Catania: io li ho portati su e giù da Roma in Sicilia – a quel tempo vivevo a Roma – per nove anni: quindi li ho eseguiti nel tempo di nove anni! La lentezza è anche per reinventare una lingua pittorica, anche perché lavorando in questo modo, bisogna aspettare che i primi strati possano asciugarsi, per poi continuare ancora, strato su strato, attendendo di poterli riprendere. Quindi, c’è una doppia valenza: da un lato una questione tecnica, dall’altro, un’attitudine al dubbio dell’immediatezza: l’immediatezza non mi appartiene. Ho bisogno sempre di riflettere su quello che faccio”7.
1 M. Benasayag, La tirannia dell’algoritmo, Vita e Pensiero, 2019
2 I pregiudizi di genere e di razza dell’intelligenza artificiale https://www.lescienze.it/news/2017/04/18/news/pregiudizi_impliciti_lingua_sistemi_intelligenza_artificiale-3493839/?rss
3 A. Casilli, Disuguaglianze digitali al tempo della pandemia e nuove forme di vulnerabilità, apparso sulla rivista Passion&Linguaggi numero 6/2020, https://www.passionelinguaggi.it/2020/10/01/diseguaglianze-digitali-al-tempo-della-pandemia-e-nuove-forme-di-vulnerabilita/
4 A. Ehrenberger, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Piccola Biblioteca Einaudi, 1998
5 L. Maffei, Elogio della lentezza, Il Mulino, 2014
6 M. Benasayag, Funzionare o esistere?, Vita e Pensiero, 2018
7 P. Guccione, La lentezza per reinventare la lingua pittorica, http://www.culturaitalia.it/opencms/it/contenuti/focus/focus_0324.html