La vulnerabilità, nel suo etimo latino, si riferisce a ciò che può essere ferito, colpito. Quel che è vulnerabile rivela cioè una debolezza, una povertà, una mancanza, e, di conseguenza, domanda una protezione, una difesa, un’azione di cura.
L’uomo viene al mondo vulnerabile. Crescendo impara, spesso con dolore e smarrimento, che la propria fragilità è strutturale. Mentre vive la conseguente e continua esposizione alla libera azione degli altri ai quali è giocoforza affidato, scopre che il controllo totale su di sé e sugli accadimenti della vita era solo una illusione.
Ma la vulnerabilità non è solo appello all’altro, è anche domanda e sfida per se stessi.
Oggi sappiamo che il suo destino di libertà interiore, l’uomo se lo gioca attraverso il riconoscimento della propria vulnerabilità, che diventa una procedura di verità verso se stessi, cammino rischioso ma fecondo e generativo.
La coscienza e l’accettazione della propria vulnerabilità può divenire, infatti, una soglia per accedere ad un nuovo stato della vita interiore non più dominato dalla paura, può trasformarsi in una porta d’accesso all’invisibile, verso ciò che trascende la mera condizione dell’umano e lo eleva a creatura spirituale, aperta all’inedito, libera di decidersi, fiduciosa verso il non ancora.
Infine, quando si giunge ad abitare la propria vulnerabilità senza paura e senza infingimenti si scopre che anche la fraternità è possibile solo a partire dalla vulnerabilità, povertà che accomuna, e non da un avere che configura asimmetrie relazionali e ostacola un’autentica reciprocità.
Ci si salva solo insieme, tra fratelli. Ma si è fratelli nella cura, nella custodia e nella responsabilità reciproca.
Come infatti scriveva il poeta tedesco Friedrich Hölderlin: “Dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva”.