«Che paura ti può fare un uomo che ha freddo? È lui che ha paura»
«La paura è la cosa di cui ho più paura» scriveva Michel de Montaigne. Già, la paura ci spaventa, abbiamo paura di avere paura, è un sentimento che vorremmo evitare eppure è uno delle nostre più importanti ancore di salvezza. È quella spia rossa che si accende quando stiamo correndo un pericolo, quando abbandoniamo la nostra zona di conforto e, mollati gli ormeggi, ci addentriamo in un territorio sconosciuto. Un segnale che ci avverte e saperlo ascoltare, spesso è fondamentale. Quando Reinhold Messner nel 1982 tentò per la prima volta la scalata di un ottomila in inverno (il Cho Oyu), arrivò a poche centinaia di metri dalla vetta. Davanti a lui un pendio di neve instabile. Rimase a lungo a riflettere, poi rinunciò. Era troppo pericoloso. La paura lo aveva salvato e può sembrare strano, riferendosi a un uomo che della sfida alla paura ha fatto il suo mestiere. Alpinisti, navigatori, esploratori di ogni tipo hanno convissuto con le loro paure, anche se ci piace pensarli come eroi impavidi. La loro bravura è stata il saper convivere con quelle paure, accettarle per superare un qualche limite. Per dirla con Henry Ford: «Una delle più grandi scoperte che un uomo può fare, una delle sue più grandi sorprese, è scoprire che può fare ciò che aveva paura di non poter fare».
Ecco perché la paura ci fa paura, perché ci aiuta, ma a volte ci limita e non esiste un metodo conclamato per stabilire quale sia il limite invalicabile. Ognuno pone l’asticella dove vuole, mettendo sul piatto della bilancia costi ed eventuali benefici. È questa natura ambigua che ci destabilizza e ci spaventa.
Eppure quante volte siamo noi stessi a costruirci le nostre paure. Ho sempre in mente le parole di un anziano pescatore di Lampedusa, che dopo avermi raccontato dei molti salvataggi in mare di migranti in pericolo, quando il discorso è scivolato sulle reazioni assurde di molti italiani verso gli stranieri, mi disse: «Che paura ti può fare un uomo che ha freddo? È lui che ha paura».
Abbiamo costruito “l’altro” per demonizzarlo, per trasformarlo in icona di ogni male e poi lo temiamo. E che scherzo beffardo ci ha giocato il destino, trasformando ciascuno di noi nell’altro di noi stessi. La pandemia dovuta al coronavirus ha tracciato un confine tra di noi, spaziale e sociale: temiamo la vicinanza, il contagio, siamo diventati uno la minaccia dell’altro. Non è un caso, che il tema dell’immigrazione, che riempiva pagine di giornali e di notiziari, è scomparso come d’incanto. Nulla. Ora a spaventarci siamo noi stessi, ma quella stessa paura che può salvarci dal contagio, rischia di trasformarsi in un’arma brutale, se usata contro esseri umani solo perché temiamo la loro, spesso presunta, diversità. Come ci ricordava Umberto Eco: «Ci vuole sempre qualcuno da odiare per sentirsi giustificati nella propria miseria. Nulla infonde più coraggio al pauroso della paura altrui».