um, “Come mai non impariamo dalla lunga serie di fallimenti che il nostro modo di vivere e il nostro modello di sviluppo ci pongono innanzi tutti i giorni?”
aa e na, “Due grandi illusioni costantemente alimentate sono le prime cause della nostra disposizione a negare l’evidenza: la prima riguarda la convinzione che la scarsità possa venire eliminata; la seconda ha a che fare con la rimozione della realtà di essere finiti, e come tali destinati a fallire”.
um, “Sì, ma come funziona il meccanismo illusorio?”
aa e na, “Il fallimento genera e mantiene in essere fantasie culturali e regimi di attesa. In sostanza ci tiene sospesi e impegnati a responsabilizzarci per le sue manifestazioni e a rilanciare per provarci ancora”.
um, “Spiegatevi meglio”.
aa e na, “Il fallimento non è un fatto naturale, ma è naturalizzato da un apparato interconnesso che lo naturalizza e, quindi, suscita l’impressione ineludibile che la buona riuscita sia sempre merito della tecnologia e delle sue virtù, mentre l’insuccesso è sempre imputabile al cittadino, all’investitore, all’utente, al consumatore. Riportare al singolo la responsabilità vuol dire impedire di mettere in discussione il sistema e rigenerare continuamente la tensione individuale a impegnarsi per riuscire, a consumare per essere, a investire per farcela”.
um, “Ma allora possiamo ipotizzare che quella del fallimento sia una strategia di rimozione della memoria e dell’esame di realtà?”
aa e na, “Se si pensa alla precarietà deliberata delle tecnologie digitali e alla provvisorietà delle esperienze e dei consumi, non dovrebbe essere difficile percepirci come incapaci di memoria e di buon uso della memoria. Se saremo capaci di presa di coscienza della nostra condizione, accoglieremo la nostra fragilità e diventeremo finalmente più forti, vivendo la fallibilità come parte costitutiva della nostra esperienza, uscendo finalmente dall’illusione che ci tiene prigionieri di una perfezione irraggiungibile”.