Un’educazione immaginativa, una sollecitazione continua a tirar fuori da sé l’immaginazione del possibile, attende di essere inaugurata.
Se la vita sia davanti a noi o dietro di noi, non è facile dirlo. Evidente è che siamo esseri finiti, e come tali destinati a fallire.
Possiamo però cercare di fallire meglio.
Educare, forse, vuol dire solo cercare di aiutare a fallire meglio.
Per questo ci vuole un essere che si renda conto del fallimento.
Uno potrebbe rendersene conto, e proprio per questo, non voler imparare. Potrebbe decidere, come spesso accade, di soffocare nella consuetudine, scambiandola per comodità del vivere, per vacanza.
Orrenda parola, vacanza. Ma anche bellissima!
Se vacanza vuol dire assenza, allora richiama la scelta di fingere di non esserci pur di non rispondere della propria presenza.
Se indica il vuoto germinale, la sospensione del senso dominante, può favorire l’avvento dell’originale nella vita e nelle cose.
Gli umani sono arrivati, con l’evoluzione, alla possibilità di rendersi conto del fallimento. Ma non tutti fanno buon uso di quella consapevolezza.
Spesso facciamo finta di non avercela la capacità di riflettere sull’esperienza e di pensare il pensiero.
Spesso ci adeguiamo per non impegnarci: ci sono costi di attivazione e non sempre vogliamo sostenerli.
Allora regrediamo senza sosta verso il vegetativo e la sopravvivenza.
L’educazione è l’unica rete protettiva nei confronti della caduta libera verso la barbarie sempre in agguato.
Non un’educazione qualsiasi.
Un’educazione immaginativa, una sollecitazione continua a tirar fuori da sé l’immaginazione del possibile, attende di essere inaugurata.
Si porta ancora dietro il pesante retaggio dell’indottrinamento e dell’istruzionismo, l’educazione.
Walter Benjamin, per tutta la vita, scrivendo e pensando, ha cercato di far sue le promesse dei libri di favole per l’infanzia, anziché respingerle con la cosiddetta maturità.
Coltivare il puer, secondo la costante indicazione di Luigi Pagliarani, vuol dire cercare sempre di fare spazio a uno spiraglio utopico che tenti l’oltre rispetto all’esistente.
L’educazione è l’unica rete protettiva nei confronti della caduta libera verso la barbarie sempre in agguato
La strategia di distruzione culturale e educativa, a partire dalle scelte degli ultimi anni, che ha coinvolto persino i governi, si è consumata e si consuma affermando ad ogni piè sospinto la centralità del contabile e del classificabile. Ad essere proposta è la piattezza di chi sa soltanto proporre l’apologia dell’esistente e la logica del profitto.
Predomina, anche nella cultura e nell’educazione, la schiavitù dell’utilità, applicata a ciò che per sua stessa natura è distinto dal fatto di essere “inutile”, cioè non immediatamente strumentale e pratico, ma capace di coltivare sensibilità e umanità. Seguendo ancora Benjamin, vale per la cultura e l’educazione la stessa passione del collezionista d’arte, o di giocattoli e libri per bambini, una delle sue passioni: collezionare esperienze in grado di estendere il mondo interno, come la bellezza.
«Il collezionista d’arte» – scrive Benjamin in un passo del suo saggio Parigi. La capitale del XIX secolo (1935), [ed. it. Einaudi, Torino 2004] – «non si limita a sognare di essere in un mondo remoto nello spazio o nel tempo, ma anche in un mondo migliore, dove gli uomini, è vero, sono altrettanto poco provvisti del necessario che in quello di tutti i giorni, ma dove le cose sono liberate dalla schiavitù di essere utili».
Lo psicoanalista Elvio Fachinelli, nato a Luserna, in una provocatoria Nota a Benjamin pubblicata su un numero della rivista “quaderni piacentini”, evidenzia come il mondo dell’infanzia si delinei, sotto questo profilo, come il regno in cui la «maledizione di essere utili» potrebbe essere sospesa, data la marginalità – se non la totale irrilevanza – che l’infanzia riveste nel sistema produttivo degli adulti. Almeno per questo potremmo decidere di investire davvero in una puer-cultura, estesa agli adulti e alla loro formazione.
“Quando legge, il bambino s’immerge interamente nella vicenda, fa un tutt’uno con i personaggi descritti e anche con le illustrazioni, lasciando scomparire tutto il resto. Nell’indicare questa modalità di lettura propria dei bambini Benjamin si discosta nettamente dal vecchio ideale pedagogico ottocentesco e anche da buona parte dei pedagogisti suoi contemporanei. Egli intravede negli spauracchi inventati – nei secoli – dagli educatori per imbrigliare la fantasia infantile l’implicito venir meno di un’«autorità» autenticamente capace di mantenere il bambino aperto sull’orizzonte della «felicità»”, come scrive Giulio Schiavoni, in A scuola da Walter Benjamin, in “doppiozero” del 19 novembre 2020.
Gli fa eco Edgar Morin: “Educare gli educatori al pensiero dell’incertezza.”
Imparare ad imparare dai bambini potrebbe conciliare finalmente l’educazione con l’immaginazione. Comprenderemmo allora che per noi è necessario, oggi, educarsi non all’incertezza soltanto, ma al pensiero dell’incertezza, un pensiero che si fa di volta in volta, che non sa prima, che sa ed è allo stesso tempo pronto a lasciare il conosciuto per salpare verso il non-conosciuto.