Ogni azione di rappresentanza se vuole ricostruire la sua radice sociale, generando un senso condiviso (il con-senso) e percorsi di inclusione nella cittadinanza, deve anteporre l’ascolto, o meglio, il “sentire”, a qualsiasi parola, e adottare un linguaggio plurale che sia competente innanzitutto sul piano emotivo-affettivo
Il 29 ottobre del 1982, nel giorno dell’inaugurazione ufficiale del Romitorio di Amelia – Centro nazionale di Formazione della Fim – il sindacato dei metalmeccanici della Cisl organizzò presso il Teatro della cittadina umbra un originale seminario di studio dal titolo: “Il sindacalese: analisi dell’essere sindacalista e del suo linguaggio”. L’approfondimento critico sul tema fu affidato a qualificati interlocutori, esperti in materia: il giornalista sindacale de “La Stampa”, Sergio Devecchi, il saggista e critico letterario e televisivo, Beniamino Placido, il filosofo dell’educazione, Duccio Demetrio, e il sociologo e sindacalista Bruno Manghi. Di quel seminario sono rimaste purtroppo pochissime tracce, alcune delle quali “salvate” a quell’epoca sulla rivista Lettera Fim dal suo curatore Bruno Liverani. Tra esse spicca una puntuale ricognizione sul linguaggio dei sindacalisti fatta dallo stesso Bruno Manghi, studioso di problemi sociali e del lavoro, e profondo conoscitore, dall’interno, del mondo sindacale. Scriveva, tra l’altro, Manghi: “….bisogna vedere quali valori nascondono le parole, quali messaggi di fondo offrono, quali modelli trasmettono. Per esempio è evidente, per me, che oggi l’interesse generale è ai dati economici, ma che la cosa avviene anche con una semplificazione strumentale, perché abbiamo assorbito dall’esterno dei criteri che direi “economicistici”, per cui tutti i rapporti e i problemi si riducono all’economia, tutto è misurabile, tutto è visto in termini di avere, di interesse economico, di sviluppo, di tasso di incremento, ecc.. Ma questa è ideologia. Certo: in un primo momento ha voluto dire maturazione e concretezza: capire come funzionavano le cose. Ma poi siamo diventati succubi di una cultura economicistica: il linguaggio tutto economico ci è entrato dentro, e spesso ha offuscato i valori più generali, le nostre speranze fondamentali”1.
Molta acqua da allora è passata sotto i ponti – quasi quarant’anni – ma l’invito di Bruno Manghi a superare i limiti del linguaggio sindacale suona ancora di più oggi come una profezia, severa e illuminante, perché, sebbene tale linguaggio continui a rinviare a radici valoriali di una certa solidità e ad aspettative forti di giustizia sociale, rischia di risultare sfasato rispetto alle domande di rappresentanza di un lavoro attraversato permanentemente da cambiamenti culturali, economici, tecnologici e organizzativi, e abitato sempre di più al suo interno da soggettività plurali ed enormi differenze.
Le “speranze fondamentali”, richiamate da Manghi su Lettera Fim nell’83, come l’orizzonte della rappresentanza sindacale, rinviano, vieppiù in chiave contemporanea, alla questione del senso e dei significati del lavoro nell’esistenza delle persone, posto che per ciascuno di noi, “il lavoro è un dato originario interno che si esprime in forme emergenti dalla connessione col mondo esterno, con la mediazione dei principi di immaginazione e di realtà”2.
E’ lontano il tempo nel quale la rappresentanza collettiva includeva, grazie a una resistente infrastruttura solidaristica – plasmata sulla grande fabbrica fordista – anche quella soggettiva, fatta di bisogni più o meno omogenei, e soprattutto materiali; una rappresentanza che aveva nelle grandi narrazioni ideologiche la sua riserva di senso e dalle quali attingeva le risorse simboliche. La cesura con quell’epoca si è consumata da tempo, all’interno di un processo economico e antropologico che ha visto modificarsi le modalità della produzione e le forme del lavoro, e crescere la soggettività individuale e quindi la differenziazione dei percorsi di inclusione nella cittadinanza, al punto che “l’identità di chi lavora e di chi rappresenta il lavoro oscilla di fronte a un tumultuoso cambiamento, e tutti viviamo un profondo sconvolgimento emozionale, fatto anche di paura e di ansia, ma anche di progetti, sogni e aspettative, di nuove forme di lavoro e di nuovi linguaggi per narrare il lavoro”3.
Va da sé che in un mondo del lavoro illeggibile con i vecchi occhiali “ford–tayloristici”, un mondo così frammentato culturalmente e segnato da forti differenze generazionali e di genere, ogni azione di rappresentanza se vuole ricostruire la sua radice sociale, generando un senso condiviso (il con-senso) e percorsi di inclusione nella cittadinanza, deve anteporre l’ascolto, o meglio, il “sentire”, a qualsiasi parola, e adottare un linguaggio plurale che sia competente innanzitutto sul piano emotivo-affettivo. Anche perché, come afferma Jacques Lacan, “il linguaggio, prima di significare qualcosa, significa per qualcuno”.
Per i sindacalisti questa non è una transizione scontata, perché vuol dire lasciarsi definitivamente alle spalle un linguaggio nato e cresciuto nel Novecento, che – come scriveva ancora negli anni Ottanta in un interessante pamphlet Bruno Manghi – pur registrando dei mutamenti nel tempo, obbliga a “prendere atto delle grandi permanenze che caratterizzano l’esprimersi del nostro sindacalismo. Il messaggio sindacale si riflette in ogni discorso di militante e sindacalista, purché elaborato nel ruolo sindacale”. Inoltre, secondo Manghi, l’impasto tra etica e analisi delle forze in campo dava luogo a “una logica ‘militare’ così evidente nelle parole: strategia, tattica, scontro, avanzata, cedimento, rottura del fronte, offensiva, campagna….”. Evidenziate tali criticità, Manghi tuttavia concludeva ricordando che “il lavoro sindacale continua ad esercitarsi in una miriade di relazioni faccia a faccia, basate su sentimenti di fiducia che occorre continuamente costituire e confermare” 4.
Appare evidente, anche sulla scorta di queste ultime considerazioni, che se il primo passo del rappresentare è la cura della relazione intersoggettiva, per riuscire a dare voce al senso, ai desideri, alle aspirazioni, insieme ai bisogni materiali, delle persone che lavorano ma anche di quelle che un lavoro non ce l’hanno, il linguaggio muscolare (“militare”) e in seconda battuta quello del cosiddetto “marketing sociale”, mal si sposano con un’azione di riconoscimento dell’altro, e di affidamento reciproco. Ospitare l’altro, infatti, vuol dire accoglienza cura e promozione di un mondo interiore unico e originale (che non è il mio ma quello dell’altro), sia pure in un rapporto educativo verticale, ossia “tirando fuori” dall’altro il meglio di sé, e conflittuale, affinché punti di vista differenti rendano ampio lo sguardo comune sul mondo generando un bene vicendevole. Il linguaggio della rappresentanza deve nutrirsi perciò di codici affettivi plurali, altrimenti, come segnala Ugo Morelli, ci si rassegna al fatto che “un silenzioso e tacito maschilismo con prevalenza del codice affettivo maschile caratterizza la cultura e gli stili del sindacato, e ciò non facilita il riconoscimento della generatività interdipendente tra emozioni, pensiero e linguaggio” 5.
Se c’è una malattia professionale a cui il sindacalista è esposto, questa è l’afasia politica, ossia la difficoltà a comprendere e a comporre un linguaggio adeguato a questo tempo nuovo, malgrado l’enorme patrimonio di parole belle e importanti di cui è ricca l’origine, la storia, la tradizione, l’attualità del sindacato. Penso a parole come persona, comunità, uguaglianza, giustizia sociale, laicità, pluralismo, ecc. che formano il retroterra culturale della Cisl. La questione è tuttavia come queste ed altre parole anche oggi, nella quarta rivoluzione industriale, possano diventare patrimonio comune, collante politico, generando un senso condiviso (questo è il con-senso) capace di fronteggiare collettivamente, immaginandolo e progettandolo, il cambiamento.
L’afasia politica rischia peraltro di rendere frustranti alcune esperienze per chi svolge un ruolo di rappresentanza del lavoro pur avendo forti motivazioni e professionalità, come la stragrande maggioranza di sindacalisti e delegati sindacali, quando tende a prevalere un certo fatalismo che conduce a considerare ostili e non modificabili alcuni contesti, o il conformismo, quando in contesti mutati o differenti tra loro si riproducono acriticamente le stesse pratiche, rifugiandosi dietro la frase: “ho fatto sempre cosi!”. C‘è tuttavia una possibilità di uscire dall’impasse ed è quella di ampliare il proprio mondo interiore personale per contenere un mondo sempre più grande. Perché si riesca a superare quella incomunicabilità che nasce dall’assenza di conflitto, del cum-fligere, ossia del venirsi incontro, in un movimento che tiene viva la tensione tra prossimità e alterità, l’uno comprendendo il mondo emotivo e cognitivo dell’altro, e viceversa. Luigi Pirandello nei “Sei personaggi in cerca d’autore”, ci ha messo fortemente in guardia da questo stallo nelle relazioni cui fanno da barriera proprio le parole, se collocate fuori da un linguaggio del “sentire l’altro”: “Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre, chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!”6
La rappresentanza collettiva, in primis quella sindacale, rigenerata dalla relazione intersoggettiva e dalla partecipazione dal basso, può configurarsi come “coprogettazione gentile”, in quanto “assume la realtà con cui interagisce e in cui intende intervenire come un ‘campo formativo’, una realtà che si mette in forma in continuazione mentre vive, e mettendosi in forma esprime problemi e risorse, vincoli e possibilità”
Questo mettersi in ascolto, il “sentire” l’altro, rigenera il linguaggio della rappresentanza, perché conduce a cercare la via di ingresso nel mondo dell’altro, per accoglierlo con ciò che porta, attivando maieuticamente i codici affettivi di cui tutti disponiamo: materni per accogliere, paterni per indicare, fraterni per condividere, per riconoscerci alfine in un “ben fatto” collettivo e personale, sia nel lavorare che nel rappresentare il lavoro. Un linguaggio nuovo della rappresentanza non si crea a tavolino, cognitivamente, ma lo si riconosce assumendo la domanda plurale di cittadinanza nel lavoro, intercettabile con codici di comunicazione qualitativamente più ricchi. La rappresentazione del mondo delle persone al lavoro o in cerca di lavoro è in questo senso la clinica della rappresentanza sindacale. Ciò peraltro corrisponde all’esigenza imprescindibile per il sindacato di allargare la propria base associativa, quale condizione di una maggiore rappresentatività e perciò di avere a disposizione più potere in quella che è la sua azione caratteristica: la contrattazione. In questo quadro si riesce a comprendere perché anche la formazione dei sindacalisti necessiti di radicali cambiamenti: l’investimento cospicuo sulle competenze tecnico-professionali va integrato con l’obiettivo di accrescere quel sapere affettivo che è la cura emozionale del pensiero, come avrebbe detto il grande psicanalista Franco Fornari, autore della “Teoria dei codici affettivi”7. Siamo nel campo della Terza educazione8 che si occupa di curare la vita dei sentimenti e il dialogo interiore di ognuno di noi con se stesso, nella consapevolezza che nella nostra disposizione a cambiare è iscritta la possibilità che anche gli altri e i contesti da essi abitati possano cambiare. La rappresentanza collettiva, in primis quella sindacale, rigenerata dalla relazione intersoggettiva e dalla partecipazione dal basso, può configurarsi come “coprogettazione gentile”, in quanto “assume la realtà con cui interagisce e in cui intende intervenire come un ‘campo formativo’, una realtà che si mette in forma in continuazione mentre vive, e mettendosi in forma esprime problemi e risorse, vincoli e possibilità”9
1 B. Manghi, Processo al sindacalese. Ripensare le nostre parole, Lettera FIM n°3, 1983
2 U. Morelli, Il lavoro non è più quello di un tempo, Passion&Lavoro n°5, 2020
3 R. Iaccarino, U. Morelli, Lavoro, affettività, innovazione, Le frontiere del lavoro e della rappresentanza sindacale: solidarietà e codici affettivi, Il Riformista 11.2.2020
4 B. Manghi, Passaggio senza riti. Sindacalismo in discussione. 1987, Edizioni Lavoro
5 U. Morelli, Il linguaggio crea mondi. Il sindacato di fronte alla necessità di immaginare nuovi linguaggi della rappresentanza, in uscita sul n°6/2020 di Passion&Lavoro
6 L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, 2014, Einaudi
7 Per un approfondimento del tema, si veda A. Maggiolini, La teoria dei codici affettivi di F. Fornari, 1988, Edizioni Unicopli
8 Per un approfondimento, si veda E. Fellin, Il primo passo è da dentro, n°1/2020 Passion&Lavoro
9 U. Morelli, Empatie ritrovate. Entro il limite per un mondo nuovo. 2020, Edizioni San Paolo.