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Diseguaglianze digitali al tempo della pandemia e nuove forme di vulnerabilità.

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Il lavoro non finisce, ma si trasforma e, in particolare, si approfondiscono le condizioni della sua espropriazione, in una situazione mondiale dove, lungi dall’assistere alla fine del taylorismo, siamo di fronte ad una sua diffusione pervasiva e parcellizzata. I lavoratori del clic sono coloro che operano sulle piattaforme digitali. Molto spesso sono esposti a situazioni di precarietà e di subordinazione estrema anche se celate da apparenze e formalità che tendono a farle apparire diverse da quelle che effettivamente sono. Questo permette ai datori di lavoro di far apparire quei lavoratori come freelance o collaboratori. Il loro lavoro però non è affatto libero. Si tratta di una realtà che è sotto gli occhi di tutti. Dai ciclofattorini, agli autisti e operatori della consegna a domicilio, alle pratiche di caporalato a danno dei rider, come è accaduto a Milano, dove la magistratura ha disposto un’inchiesta e il commissariamento di Uber Eats, una delle principali aziende che operano nel settore del food delivery. Tutte queste situazioni consentono di capire le radici e i meccanismi dello sfruttamento nel nuovo lavoro digitale.  

Nel lavoro digitale, siamo tutti coinvolti come lavoratori. Quando un dito clicca su un mouse o su uno schermo, quando si mette un like su un social, o trascriviamo testi digitalizzati, o filtriamo i commenti di un blog, stiamo di fatto lavorando per alimentare un processo complessivo di produzione. È l’addestramento umano che deriva da milioni e milioni di digitalizzazione che permette agli algoritmi di diventare intelligenti. Accanto ai lavoratori del clic che operano sulle piattaforme digitali, spesso in impieghi di pochi minuti con paghe di pochi centesimi, anche i semplici utilizzatori contribuiscono alla produzione di ricchezza come operai del clic, appunto. C’è un filo rosso che connette il clic di ognuno su una app all’economia basata sugli algoritmi. 

Specificamente vi sono gruppi di lavoratori, la cui visibilità è magari più bassa, ma che sono essenziali, intrappolati tra inattività e precarietà, che in tutto il mondo si stanno muovendo verso il “lavoro dell’ultimo chilometro”. Questi includono lavoratori occasionali che si occupano della consegna, della logistica e di una vasta gamma di altri mestieri alla fine della catena di approvvigionamento. Consegnano, trasportano e allo stesso tempo addestrano algoritmi che fanno funzionare GPS, pubblicità mirata e sistemi di prezzi dinamici.  

I lavoratori del cottimo online e coloro che producono dati e contenuti sui social svolgono mansioni iper-parcellizate che servono ad addestrare le intelligenze artificiali. Sono affini, come condizioni lavorative, ai moderatori che su Youtube o Facebook guardano video per filtrarli o eliminare foto di violenze. Ci sono anche lavoratori nelle fabbriche del click che producono falsa viralità, falsi like o falsi followers, e naturalmente ci siamo noi utenti che produciamo informazioni monetizzabili vendute a terzi, appunto. È così che si produce la ricchezza del capitalismo digitale e si produce, soprattutto, l’accentuazione delle disuguaglianze che caratterizza l’iniqua distribuzione di questa ricchezza. La robotica è infatti basata su tecnologie di machine learning, l’apprendimento automatico che richiede dati in continuazione, ha bisogno di molto lavoro e la mia ipotesi è che la grande sostituzione degli uomini con il robot sia una menzogna, cioè una profezia che non si realizza mai. In realtà oggi a livello mondiale ci sono sempre più persone che hanno un lavoro precario e atipico. Un tratto caratterizzante di questa enorme quantità di lavoro è la sua invisibilità. I lavoratori sono considerati “servizi umani” o appendici delle macchine che gestiscono e comunicano dati. Quei dati sono prodotti proprio dall’attività. La lotta condotta per il riconoscimento dello status di lavoratori subordinati in alcune parti del mondo ha che fare anche con la grave questione della disuguaglianza che si produce se non si considera l’importanza di lavorare all’ipotesi di un reddito sociale digitale, unico modo di sottrarre alle piattaforme la ricchezza prodotta dalla forza lavoro e distribuirla ai lavoratori stessi. 

Le profezie sulla “fine del lavoro” risalgono all’alba della civiltà industriale. Anche oggi c’è un’opinione diffusa sulla rivoluzione tecnologica, ed è che l’intelligenza artificiale sostituirà gli uomini, cancellando il lavoro come lo conosciamo. Un’idea del tutto infondata. Le nostre inquietudini sono un sintomo della vera trasformazione in atto: non una scomparsa del lavoro, ma la sua digitalizzazione. Con un’inchiesta sul nuovo capitalismo delle piattaforme si può verificare come sia difficile gettare luce sulla manodopera dell’economia contemporanea: centinaia di migliaia di schiavi del clic vengono reclutati in Asia, in Africa e in America Latina per leggere e filtrare commenti, classificare le informazioni e aiutare gli algoritmi ad apprendere. È una rivoluzione che ci riguarda da vicino, molto più di quanto vorremmo vedere, perché trasfigura il lavoro in un gesto semplice, frammentario e pagato sempre meno o perfino nulla, quando a compierlo sono addirittura i consumatori. E’ necessario esplorare, quindi, le strategie e le regole del nuovo taylorismo, nel quale Amazon, Facebook, Uber e Google sono gli attori principali grazie alla capacità di sfruttare i propri utenti, inducendo gesti produttivi non remunerati. Servono tutti gli strumenti della sociologia e della scienza politica, del diritto e dell’informatica per smascherare le logiche economiche della società plasmata dalle piattaforme digitali. Per la prima volta, con i contenuti del libo Schiavi del clic riusciamo a immaginarne le possibilità di superamento dei problemi: la posta in gioco della nostra epoca è la lotta per il riconoscimento del lavoro di chi fa funzionare le macchine senza diritti e, spesso, senza consapevolezza. Siamo tutti lavoratori digitali e abbiamo bisogno di una nuova coscienza di classe. 

Le conseguenze evidenti dei processi considerati sono nuove e diffuse forme di vulnerabilità, che dipendono dalla precarietà propria del lavoro sulle piattaforme; dall’illusorietà dello smart working come soluzione palingenetica, come è sembrato emergere nei tempi della pandemia; un mercato del lavoro a fratture multiple in cui il disorientamento, la perdita di significato del lavoro, le disuguaglianze e l’impoverimento sono fenomeni caratterizzanti. 

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