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Non è tempo di moderatismi

Autore

Virginio Colmegna
Don Virginio Colmegna (Saronno VA, 1945) è un sacerdote della diocesi di Milano, dal 2002 presidente della Fondazione Casa della carità “Angelo Abriani”, ente voluto dall’allora Arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini, come luogo di accoglienza e ospitalità per persone in difficoltà e che fosse anche centro di elaborazione culturale, di formazione e di studio. Si è sempre occupato di poveri ed emarginati, siano essi donne o uomini, italiani o stranieri, tra cui persone senza fissa dimora, minori disagiati, sofferenti psichici, immigrati, profughi, rom. Ha fondato diverse cooperative sociali e comunità di accoglienza e ha sempre operato per affermare i diritti di cittadinanza dei più deboli e per diffondere la cultura dell’accoglienza, nella convinzione che chi è in difficoltà non vada aiutato con l’assistenzialismo, ma con promozione di diritti, dignità, percorsi di reinserimento sociale e lavorativo. Dal 1993 al 2003 è stato direttore della Caritas Ambrosiana e prima ancora ha ricoperto il ruolo di parroco in quartieri difficili della periferia milanese. Nel 2011 l'Università degli Studi Milano Bicocca gli ha conferito la Laurea magistrale honoris causa in scienze pedagogiche, mentre nel 2014 ha ricevuto una seconda Laurea honoris causa in Comunicazione pubblica e di impresa. È autore di diversi saggi sul tema del rapporto tra disagio sociale e spiritualità.

L’emergenza sanitaria ha acuito le diseguaglianze sociali colpendo maggiormente quelli che già erano i più deboli, inclusi i giovani e le donne 

La pandemia ci sta facendo vivere un tempo sospeso, in attesa di ritornare alla cosiddetta normalità. Ma siamo proprio sicuri che prima era meglio? L’emergenza Coronavirus ha certamente prodotto uno sconquasso del tessuto sociale ed economico del nostro Paese, ma a mio avviso non ha rotto un equilibrio di prosperità e benessere bensì ha messo in evidenza e accentuato problemi e difficoltà già esistenti. Il Covid ha tolto il velo alle contraddizioni della società, così tutti hanno potuto vederle. Il rapporto Istat del luglio di quest’anno racconta proprio questo: l’emergenza sanitaria ha acuito le diseguaglianze sociali colpendo maggiormente quelli che già erano i più deboli, inclusi i giovani e le donne. 

Ecco perché penso che quanto stia accadendo debba essere considerato un’opportunità enorme che non possiamo perdere. Va compiuto un vero e proprio cambiamento di rotta, con radicalità. Non è tempo di moderatismi, dobbiamo invece agire nell’immediato approfittando di questa situazione di crisi. Non si possono più mettere toppe o fare aggiustamenti a margine, sporadici e discontinui. Abbiamo bisogno di coraggio e forza per inaugurare una stagione di politiche innovative e di scelte audaci. Lo dobbiamo anzitutto a quanti hanno sofferto di più e continuano a pagare i costi maggiori della pandemia. Questo virus non è stato democratico come qualcuno racconta. Molto diverso è stato l’impatto che ha prodotto su diverse fasce sociali. Alcuni esempi: pensiamo alle donne vittime di violenza, alle quali si chiedeva di stare chiuse in casa con i loro persecutori; oppure ai ragazzi ospitati nelle comunità, non abituati a condividere per 24 ore al giorno lo stesso spazio evidentemente angusto; o ancora alle persone con disabilità, che hanno vissuto un’emergenza nell’emergenza nel venir meno di una serie di servizi per loro importanti con il conseguente sovraccarico di fatiche e angosce per le famiglie. 

Quanto accaduto in questi ultimi mesi, lo sappiamo, è stato uno shock dal punto di vista economico e sociale. C’è tuttavia un ambito, quello della scuola, che vive una situazione ancora più drammatica perché la progressiva crescita della povertà economica ha avuto un forte impatto, più che in passato, su bambine e bambini. Inoltre, povertà economica e povertà educativa si alimentano a vicenda. Con la pandemia abbiamo scoperto quanto sia grave e profonda la povertà educativa: tanti bambini ancora sono esclusi da reali percorsi educativi. In molte aree del Paese vi sono elevati tassi di abbandono degli studi e con la didattica a distanza molti sono rimasti ancora più indietro. 

La drammatica esperienza del Covid ha portato diverse persone ad affinare le proprie sensibilità mettendo in gioco competenze ed energie per avviare o consolidare esperienze auto-organizzate di mutualismo, orientate alla tutela e valorizzazione dei beni comuni 

La pandemia ha dunque aperto un bivio, ora bisogna capire quale direzione prendere perché le strade possono essere diverse e discordanti. Non c’è nulla di automatico. Perché se da un lato abbiamo visto reazioni di chiusura e rabbia, a volte anche strumentalizzate con l’aggravarsi delle difficoltà economiche e della mancanza di certezze e punti di riferimento, dall’altra abbiamo registrato spazi nuovi e inediti. La drammatica esperienza del Covid ha portato diverse persone ad affinare le proprie sensibilità mettendo in gioco competenze ed energie per avviare o consolidare esperienze auto-organizzate di mutualismo, orientate alla tutela e valorizzazione dei beni comuni. Ecco, ritengo che sia questa nuova visione del mondo, fondata sulla centralità del noi, quella che deve prevalere. 

Dinanzi a un corpo sociale frammentato e stranito qualcuno ha trovato la forza di reagire, di ricompattarsi. Per molti l’emergenza ha significato quello che Papa Francesco nella Laudato Si’ chiama un “ritorno al terrestre” ovvero a una dimensione che ci colloca in sintonia con l’ambiente e il senso del limite segnato dalla natura e che ci fa prendere consapevolezza della stretta interconnessione tra tutti i viventi del pianeta. Allora per rimettersi in piedi si deve puntare su un ritrovato senso di comunità, in armonia con il Creato, ritrovando quel “noi” che significa legami che ci uniscono agli altri. È quel sentirsi insieme per cui chi è in posizione più solida e sicura riesce a voltarsi e dare una mano a chi sta più indietro. Perché se si spezzano i legami della comunità, la comunità non può rialzarsi. È questa la nuova strada per una vera emancipazione sociale. 

Abbiamo quindi una sola scelta, quella di rovesciare il paradigma di questi anni, un paradigma che ha fallito clamorosamente su più fronti. Siamo dinanzi alla necessità di cambiare il modello di sviluppo che ci ha guidato fino a oggi perché è proprio quello che ha causato i problemi che abbiamo vissuto e ancora stiamo vivendo. Tuttavia, il cambio di paradigma non deve essere inteso come un’affermazione ideologica, bensì come un percorso da sperimentare insieme. Se davvero vogliamo cambiare, dobbiamo farlo insieme attraverso un percorso di partecipazione. E dobbiamo farlo prima di tutto con i sentimenti che ci dicono che ognuno è mio fratello e mia sorella. Il fondamento da cui ripartire è l’umanità. 

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