Un opportuno esame di realtà induce a riconoscere le difficoltà derivanti dalla crisi in corso e a trarne con responsabilità le conseguenze
La nostra attitudine mentale, il nostro ottimismo innato, ci portano a credere che a questa crisi vi sia una fine certa, sia nei tempi che nelle modalità. Io non condivido questo ottimismo. Ritengo infatti che non torneremo ad alcuna “normalità”: e non mi riferisco all’aperitivo con gli amici, ma alle cose serie, al modo di lavorare. Non torneremo a lavorare come un tempo. Provo a dire perché.
Anzitutto, questa crisi non sarà solo durissima, sarà anche di durata. Quanto lunga esattamente non so, ma di una lunghezza dell’ordine dei semestri e, forse, degli anni. Quando infatti un’economia viene colpita duramente come è avvenuto in questo caso, parlare di “ripartire” è infantile, se non da incompetenti. Le imprese ripartono lentamente, tra mille difficoltà quali il distanziamento, e quindi la necessità di avere personale ridotto in fabbrica; le difficoltà che hanno i loro fornitori a rispettare i tempi di consegna di semilavorati e prodotti intermedi; le difficoltà che hanno i loro clienti che, a fronte di una domanda scarsa, hanno difficoltà a pagare. Tutte queste difficoltà, e altre mille, rendono penosamente lento il tempo del recupero.
Questa crisi non sarà solo durissima, sarà anche di durata. Quanto lunga esattamente non so, ma di una lunghezza dell’ordine dei semestri e, forse, degli anni
In questo quadro, le imprese coscienti del fatto che la domanda sarà meno abbondante di quanto non fosse corrono a studiare e adottare misure di cambiamento tecnologico e organizzativo che oscureranno quanto fatto fino ad ora: pensiamo alla manutenzione a distanza, alla supervisione a distanza, non sempre e non solo allo smartworking per gli impiegati.
Queste poche osservazioni indicano già con una certa chiarezza che riduzione della domanda finale di merci e intensificazione dell’adozione di tecnologie produttive e organizzative labor-saving porteranno a tassi di disoccupazione che nella crisi iniziata nel 2008 non sfiorammo neanche. All’inizio di maggio il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti era del 14,7%, contro un massimo di meno dell’11% nella crisi di allora; e proprio in questi giorni il presidente di una delle banche federali del sistema federale Usa ha dichiarato di ritenere che l’anno si concluderà con la disoccupazione al 20%. Numeri orrendi.
Le imprese coscienti del fatto che la domanda sarà meno abbondante di quanto non fosse corrono a studiare e adottare misure di cambiamento tecnologico e organizzativo
E la ripresa, come sarà la famosa ripresa? “sarà tre volte Natale, e festa tutto il giorno” come cantava Lucio Dalla in “l’anno che verrà”? L’impressione di molti economisti, che io condivido, è che assisteremo ad un’altra ripresa senza occupazione. In Italia abbiamo oggi quasi un milione di lavoratori tempo-pieno-equivalenti in meno di quanti ne avessimo nel 2007. Quanti ne avremo “dopo” questa crisi? In un lavoro appena pubblicato da ricercatori universitari dello Stato di New York si stima che moltissimi dei lavoratori oggi non occupati non torneranno a lavorare in una posizione stabile: il 42%, è la stima.
Certo, si dirà, ma quelli sono gli Stati Uniti. Infatti: loro nel 2011 erano usciti dalla crisi iniziata nel 2008, noi ci stiamo ancora dentro. E ne è arrivata un’altra.