“La pandemia è una livella”. Più volte abbiamo ascoltato questa espressione, che allude all’infezione da Covid-19 come a una sorta di mano invisibile, democratica, che tocca tutti allo stesso modo. Di fronte a questa boutade il principe Antonio De Curtis, meglio conosciuto come Totò, non si sarebbe trattenuto nel chiosare perentoriamente: “ma mi faccia il piacere!”. Sarebbero d’accordo con lui le migliaia di morti che il nostro paese oggi conta; la platea sterminata di lavoratori dipendenti in cassa integrazione e che rischiano il lavoro; gli autonomi (quelli fedeli al fisco) rimasti privi di reddito; i disoccupati che vedono lontano un impiego; i disabili penalizzati dal confinamento sociale; i ragazzi che vivono in contesti sociali critici, tagliati fuori dalla formazione scolastica online. La pandemia ci offre un’istantanea su come cambia l’esposizione al rischio a seconda della posizione sociale di ciascuno. Anche nella percezione degli altri: un discorso andrebbe fatto sugli anziani, che hanno pagato un prezzo altissimo, e che nella testa di molti sono una naturale vittima sacrificale del coronavirus.
La pandemia ci offre un’istantanea su come cambia l’esposizione al rischio a seconda della posizione sociale di ciascuno
C’è un modo per affrontare questa emergenza e le sue conseguenze mettendo le basi per cambiare radicalmente la protezione sociale nel nostro paese: immaginando (finalmente) le persone in carne, ossa, relazioni e desideri. Continuare a ragionare per “categorie” sociali e professionali (così differenziate al loro interno), e appiattire ogni discorso sui bisogni e sul reddito (pur con la dovuta cura per chi versa in condizioni difficili), rischia di cristallizzare la realtà con le situazioni di ingiustizia, e lasciar fare alle corporazioni sul versante lobbistico, e alle mafie, sul versante illegale-criminale, il loro cinico gioco. Il reddito non fa (da solo) la ricchezza di una persona, quanto invece quella dotazione di abilità, motivazioni, emozioni, relazioni – di capabilities, come le ha definite Amartya Sen – che permettono a ciascuno di decidere di sé e del proprio destino. Esercitando la libertà: di esprimere la propria soggettività nel sentirsi utile a se stessi e agli altri. Scrive Sen che “a parità di risorse materiali, le persone possono conseguire risultati diseguali in termini di benessere, dato il peso di tutta una serie di fattori che vengono a incidere sulle loro capacità di utilizzo delle risorse”.
Cosa ostacola l’espressione di questa libertà positiva? L’articolo 3 della Costituzione italiana arricchendo il principio di uguaglianza già previsto dallo Statuto Albertino, inteso come godimento dei diritti civili e politici per i cittadini, introdusse l’impegno delle istituzioni a rimuovere quegli «ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Una norma modernissima se si pensa che col mutare della cultura e degli assetti economici e produttivi, la povertà – fino a ieri associata tout court alla mancanza di lavoro e di reddito – viene sempre più configurandosi come un fenomeno dinamico, trasversale alle diverse categorie sociali e connotato da una multi-problematicità che può spingere nella precarietà anche individui apparentemente garantiti, in genere a fronte di eventi traumatici inattesi. Storicamente il limite delle nostre politiche di protezione sociale (anche di sinistra) è stato quello di aver privilegiato la via (individuale) dei trasferimenti monetari a quella dell’accesso ai servizi e delle politiche attive. Ermanno Gorrieri, pioniere delle politiche sociali in Italia, nel volume Parti uguali fra disuguali (Il Mulino, 2002) criticò tale approccio, perché prescinde dalle condizioni dei beneficiari e penalizza i più deboli, tra i quali vi sono gli incapienti, che percependo un reddito molto basso sono tagliati fuori anche dai benefici fiscali. All’universalismo puro, anche per ragioni di efficienza, Gorrieri opponeva un universalismo selettivo delle prestazioni, basato sull’accertamento di patrimoni e reddito del destinatario. Questione rispetto alla quale la politica italiana, da destra a sinistra, è stata sempre allergica. Persistere su questo binario, significherebbe dare una risposta alla crisi attraverso l’estensione del reddito di cittadinanza, che finirebbe per diventare una trappola, allargando il numero di assistiti senza offrire loro una possibilità di uscita dalla povertà. Servirebbe invece immaginare interventi alternativi, che combinano sostegno economico e inserimento al lavoro all’interno di un progetto che mette insieme domanda e offerta, anche attraverso la formazione intesa come diritto soggettivo, e in correlazione con le aspettative individuali, l’innovazione delle aziende, il coinvolgimento delle istituzioni locali e dei soggetti sociali associati e la vocazione dei territori.
Immaginare interventi alternativi che combinino sostegno economico e inserimento al lavoro, anche attraverso la formazione intesa come un diritto soggettivo, e in correlazione con i progetti individuali
Le cose cambiano vertiginosamente. Le tre transizioni con cui facciamo oggi i conti, quella demografica, quella climatica e quella digitale, saranno sostenibili certo in un nuovo quadro macroeconomico europeo e attraverso gli investimenti pubblici nelle infrastrutture digitali, ma soprattutto se lavoro e welfare diventeranno le basi di un patto sociale inter-soggettivo e affettivo su cui ricostruire politicamente il paese: orizzontale tra i generi e verticale tra le generazioni. L’obbligazione viene prima del diritto, afferma Simone Weil, in quanto “un diritto non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde; l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono nei suoi confronti obbligati a qualcosa”. Questa dimensione orizzontale della fraternità rende possibili la libertà e l’uguaglianza, attraverso una declinazione della cittadinanza non più al singolare nè al plurale ma, come dice Raimòn Pannikar, al duale.
Articolo molto interessante.
Vorrei aggiungere che non a caso già nel Settecento in Francia si gridava Liberté Égalité Fraternité.
LA RINGRAZIO PER QUESTO ARTICOLO. VERAMENTE INTERESSANTE, SEBBENE NON COGLIE LA DIFFERENZA PER IL SUD DEL PAESE DOVE LA CULTURA LEGATA ALLA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA RENDE ANCORA PIU’ PRECARIO IL PATTO SOCIALE A SALVAGUARDIA DEI PIU’ DEBOLI IN OGNI FASCIA SOCIALE