Il nostro destino di animali sociali e relazionali è molto legato a come sono progettate e organizzate le città e all’accessibilità agli spazi aperti
Ci troviamo di fronte ad un paradosso. Il confinamento assoluto nello spazio delle nostre case ci ha fatto comprende meglio che il nostro destino di animali sociali e relazionali è molto legato a come sono progettate e organizzate le città.
Chiusi in casa, privati dell’accesso ai parchi, alle piazze, alle spiagge, ai sentieri di montagna (come se lo spazio aperto fosse un pericolo di per sé, cosa che ovviamente è contro ogni evidenza empirica), abbiamo capito che la nostra salute oggi dipende proprio da quegli spazi.
Salute e benessere dipendono da quanto spazio aperto pubblico e naturale ha a disposizione ogni cittadino e da quanto ne potrà disporre in futuro.
La pandemia ha tolto l’ultimo velo di ipocrisia sulle nostre vite urbane e l’attenzione alla crisi climatica corrobora le nostre certezze: non sono abitabili città dove predominano le automobili sullo spazio di pedoni e ciclisti, dove siamo soffocati dall’inquinamento dovuto al traffico e al consumo di suolo, dove i tempi di vita sono organizzati intorno a picchi orari incompatibili con la varietà degli stili di vita.
Alcune città, penso a Milano o a Torino, cominciano a pensare di desincronizzare le città, sfasando e modulando i tempi urbani così da evitare accessi concentrati e eccessi di presenze in alcune fasce orarie.
I cittadini hanno già una consapevolezza ecologica e stanno già svolgendo un’azione ecologica, sono pronti per ripensare ai tempi delle loro vite, a muoversi meno, a camminare di più, a mangiare meglio, a lavorare anche da casa
Questa fase di distanziamento spaziale sta costringendo amministratori e tecnici a mettere mano agli spazi pubblici, allargando lo spazio dei marciapiedi, rendendo possibile l’estensione di bar e locali su piazze e strade, tracciando nuove piste ciclabili, temporanee o definitive, su strade esistenti oppure nei controviali.
Il design degli spazi pubblici, pensato per facilitare la prossimità e l’incontro, favorire lo scambio, il comfort negli spazi e le relazioni tra le persone, deve improvvisamente dare forma alle nostre distanze.
E si trova davanti due strade possibili. La prima accentua il carattere privato e individuale della città. Risponde ai dettami della cosiddetta shut-in economy: mondi privati, senza relazioni, dove lo spazio collettivo perde significato, in favore di relazioni di prossimità nel privato e di un’economia dei consumi personalizzata; un ritorno massiccio all’auto privata in nome della salute collettiva (sacrificando la questione ambientale).
In linea con le regole dell’architettura difensiva, disincentiverà l’uso degli spazi pubblici come un tempo faceva solo con alcune categorie di persone. Panchine con braccioli che impediscono di potersi sdraiare, spunzoni anti seduta disposti davanti alle vetrine, pensiline di autobus in cui poter sostare solo pochi minuti, dissuasori sonori che emettono un sibilo molto disturbante per i ragazzi più giovani. In Francia li chiamano arredi disciplinanti, soluzioni capaci di determinare i comportamenti delle persone negli spazi collettivi.
La seconda assume la distanza tra le persone (necessario e temporaneo stadio per mitigare l’impatto del virus) come occasione propizia per riscrivere la grammatica di alcuni luoghi urbani: dilatando spazi e tempi d’uso della città a disposizione dei cittadini.
In questa seconda accezione, il design urbano muove da immaginari diversi da quelli della costrizione e della norma. Può attingere al repertorio ormai ampio dell’urbanistica tattica, che sperimenta inedite potenzialità dei luoghi allestiti ad uno scopo temporaneo, alla fun theory, che lavora sulla emotività e creatività delle persone, alla filosofia delle città-senza-auto che lavorano su marciapiedi, piste ciclabili, corsie per i monopattini, facilitando ogni forma di mobilità lenta.
Molto dipenderà da come sapremo gestire questa fase e da quale delle due direzioni prenderemo.
È la vicinanza fisica che rende l’essere umano, umano. Siamo sociali per natura. Ma oggi non può bastare. Dovremo rendere più compatibili le nostre vite con la natura e con l’ambiente
Tutta la filmografia degli ultimi decenni, la letteratura distopica e di fantascienza, quando vuole mostrare l’uomo privato della sua interiorità, della sua anima, sterilizzato quasi a diventare un robot, lo rappresenta in uno spazio condiviso con altri uomini in assenza di prossimità. È la vicinanza fisica che rende l’essere umano, umano. Siamo sociali per natura. Ma oggi non può bastare.
I cittadini sono pronti: quando hanno a disposizione biciclette in sharing le usano, se stimolati fanno con precisione la raccolta differenziata, cominciano a scegliere prodotti biologici, hanno imparato in fretta a usare le piattaforme d’acquisto on line, apprezzano la qualità degli spazi verdi. C’è una capacità di adattamento su cui investiamo ancora troppo poco.
Come ricorda Thimoty Morton nel suo libro, Noi esseri ecologici (Laterza, 2018) e come argomento con esempi nel mio libro Biodivercity. Città aperte, creative e sostenibili che cambiano il mondo (Giunti, 2019), i cittadini hanno già una consapevolezza ecologica e stanno già svolgendo un’azione ecologica persino ignorando la questione, sono pronti per ripensare ai tempi delle loro vite, a muoversi meno, a camminare di più, a mangiare meglio, a lavorare anche da casa. Ora è il tempo.