Il 20 maggio scorso abbiamo festeggiato i 50 anni dello Statuto dei Lavoratori, la Legge 300. Un traguardo raggiunto al culmine di una stagione di grande protagonismo sindacale in termini di lotta, rivendicazione e capacità di aggregare le migliori energie e le fatiche operaie intorno a un orizzonte comune da raggiungere, insieme. Fu, quella, la primavera del Sindacato, nuovo soggetto di “governo”, in grado di incidere nelle decisioni politiche perché forte di una straordinaria rielaborazione politico culturale tradotta, poi, in avanzamenti sociali, economici, lavorativi e valoriali. Una stagione in cui giovani sindacalisti ebbero il coraggio di sperimentare e la forza di immaginare qualcosa di nuovo che ancora non c’era ma che già faceva battere i cuori e illuminava le menti. La svolta arrivò con i Contratti Nazionali dei Metalmeccanici del 1969, siglati l’8 dicembre con le aziende pubbliche e il 23 dicembre con la Federmeccanica. Segnarono grandi successi per il Sindacato e per il mondo del lavoro: consistenti aumenti salariali, settimana di 40 ore, riconoscimento del diritto di assemblea e dei delegati aziendali, estendendo l’esperienza dei consigli dei delegati come rappresentanza unitaria al posto delle commissioni interne, e conquista della contrattazione integrativa, storico cavallo di battaglia della Fim e della Cisl. Quei risultati furono recepiti dallo Statuto dei Lavoratori. La Fim ripartì con un’intensa attività formativa per attrezzare le proprie strutture a gestire e far vivere le conquiste contrattuali. La formazione è il tratto distintivo della necessità democratica, per chi vuole promuovere giustizia, di insaporire pensiero e azione con studio e capacità di analisi perché, come ci ricorda Antonio Gramsci, “se l’uomo politico sbaglia nella sua ipotesi, è la vita degli uomini che corre pericolo, è la fame, è la rivolta”. Partecipazione e responsabilità, quindi, contro l’improvvisazione e il dilettantismo “che è mancanza di profondità spirituale, mancanza di sentimento, mancanza di simpatia umana”, come amava definirlo Gramsci.
Abbiamo il dovere, oggi più che mai, di rimettere al centro l’attenzione per l’uguaglianza che non vuol dire tutti uguali e conformati, ma vuol dire giustizia sociale, solidarietà e meritocrazia partendo da pari opportunità. Il Sindacato ha il dovere di riequilibrare l’ingiustizia della lotteria della nascita che assegna privilegi e difficoltà senza merito né colpa. Stanno qui i germogli di alcune grandi conquiste sindacali: nel 1973 i metalmeccanici realizzarono le 150 ore di diritto allo studio consentendo a centinaia di migliaia di lavoratori di accedere a percorsi scolastici, preclusi da condizioni di miseria, unendo progresso civile e avanzamento culturale per tutto il Paese; nel 2016, il contratto dei metalmeccanici ha sancito il diritto soggettivo alla formazione per tutti i lavoratori, la mano sapiente che accompagna le persone all’interno dei cambiamenti tecnologici, contenendo i rischi e massimizzando le opportunità; la previdenza complementare e la sanità integrativa sono state due risposte all’invecchiamento demografico e al conseguente stress del nostro stato sociale, una grande operazione di giustizia sociale e democrazia economica in grado di difendere l’universalità del welfare per i lavoratori, a prescindere dalle condizioni individuali di partenza. È questa la capacità progettuale che fa vincere il Paese, che preferisce, ai vincoli delle posizioni di principio, la libertà della creatività e dell’immaginazione per riattualizzare tutele e diritti e, allo stesso tempo, creare consapevolezza della sfera dei doveri facendo maturare, in definitiva, il valore della responsabilità come collante sociale.
Anche la questione climatica sta presentando il conto delle disuguaglianze: i tanti che hanno subito sfruttamenti ambientali sono gli stessi esclusi dal benessere che quelle sopraffazioni hanno prodotto. È tempo, quindi, di spostare la competitività delle imprese sul campo della sostenibilità economica, sociale e ambientale, rendendola conveniente e in grado di produrre benefici diffusi. Tra le cause della diffusione dei virus ci sono, anche, una maggior vicinanza e promiscuità tra uomo e animale e l’estinzione di alcuni esemplari, a seguito appunto dello sconquasso ambientale. Lo ha raccontato molto bene David Quammen in “Spillover”, capolavoro realizzato in epoca pre covid 19, che ci avvertiva dei rischi dovuti al salto di specie realizzato dai virus mettendoci in guardia, partendo da analisi su passate epidemie, di possibili nuove pandemie come quella con cui, purtroppo, stiamo facendo i conti ora. All’orizzonte stanno già emergendo nuove possibili disuguaglianze che trovano radice in un modello di sviluppo e di economia che si reggeva su altre disuguaglianze, appunto. Il virus rischia di accelerarne la riproposizione. Pensiamo, ad esempio, alla condizione delle donne nel mondo del lavoro: salari e percorsi di carriera inferiori a quelli degli uomini e riproposizione del subdolo ricatto che pone il lavoro in alternativa alla cura della famiglia, ancora sulle spalle delle donne sia perché viviamo in una società maschilista sia perché sono quelle che guadagnano meno, riportando le lancette degli avanzamenti sociali indietro di mezzo secolo. Le conseguenze sarebbero nefaste per tutti. Da una maggior partecipazione delle donne al mercato del lavoro passa anche il riscatto demografico del nostro paese. O ancora, pensiamo, alle lezioni scolastiche a distanza: funzionano nelle famiglie istruite, dove il genitore è in grado di accompagnare i propri figli nel percorso di apprendimento; richiedono la disponibilità di più dispositivi elettronici, che siano computer, tablet o smartphone, da utilizzare e dividere tra le esigenze scolastiche dei ragazzi e quelle dei genitori in smartworking; necessitano di connessioni internet prestanti. Oppure, prendiamo la chiusura delle scuole. In alcune zone di Italia la frequenza scolastica rappresenta per molti ragazzi l’alternativa a un percorso malavitoso fatto di ignoranza e disperazione. Il blocco delle lezioni, sommate alle evidenti difficoltà di impegno a distanza, può far perdere anni di lotta alla dispersione scolastica. Ecco, il rischio è che a farne le spese siano i figli delle famiglie più fragili dal punto di vista culturale, economico e sociale creando, così, le condizioni per preparare ulteriori doti di difficoltà da lasciare in eredità alle future generazioni, perpetuando le medesime disuguaglianze all’origine di quelle stesse emarginazioni.
Un quadro che non deve abbatterci ma che, anzi, deve trasmetterci l’entusiasmo di voler guidare la riscossa collettiva. Dobbiamo sentire il peso leggero del momento, che è quello che fa battere il cuore, rigenerare la mente e correre le gambe. È la riscossa gioiosa di chi sa di essere nel posto migliore, nel momento giusto, per ripensare, e realizzare, un nuovo modello di sviluppo, perché di quello vecchio già ne conosciamo gli esiti. Ce la faremo perché abbiamo la capacità di guardare la realtà nel suo complesso e la forza per rovesciare il paradigma all’origine di tutte queste emergenze che stiamo vivendo e che sono, come dice Ugo Morelli, un’emergenza unica, la stessa, che necessita, quindi, di un’unica risposta complessiva e diversa. Ce la faremo perché abbiamo nel dna quello stesso spirito di frontiera del Sindacato nel dopoguerra, fatto di studio, progettazione e linguaggi nuovi perché, ci ricorda Gramsci, “ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini”. E allora, prendiamoci quel domani, insieme a questa bellissima promessa di responsabilità sociale, civile e collettiva che ognuno di noi deve mantenere nei confronti del futuro.