Por um fio è il titolo della fotografia scattata nel 1976 da Anna Maria Maiolino (Scalea, 1942), Leone d’oro alla carriera della Biennale Arte di Venezia 2024, che la ritrae con la madre e la figlia, legate da un filo che le unisce per la bocca. Il filo lega anche i rispettivi paesi d’origine, Italia, Ecuador e Brasile, come una mappa che disegna le traiettorie della vita e racconta la storia di generazioni diverse di donne, unite da un profondo legame di sangue, messe sullo stesso piano frontale, con la medesima dignità di protagonismo. Non è un caso che il filo sia trattenuto dalle labbra, perché la bocca rappresenta per l’artista il linguaggio, la storia, la vita. Un filo che è simbolo di vicinanza e distanza, di comunione e differenza.
Il filo per antonomasia è il cordone ombelicale, che lega il feto al corpo della madre: primo ancoraggio all’esistenza dell’essere umano, il primo simbolo della vita.
Cosa sono i legami? Se riflettiamo sul verbo ‘legare’ ci accorgiamo della forte ambiguità: combina un’idea di sicurezza (ad esempio la cordata dell’alpinismo e dell’arrampicata, l’attracco alla banchina o alla boa), con l’idea opposta del contenimento, della limitazione della libertà, della tortura (la camicia di forza, le catene, il nodo scorsoio). Un’ambivalenza fra elementi vitali e mortiferi, fra esserci e non esserci, fra riconoscimento e negazione. Le moire greche (Clòto, Làchesi e Àtropo) non a caso erano raffigurate come tessitrici, rappresentando il dipanarsi della umana vita attraverso un filo, che a un tratto sarebbe stato reciso. Nel paese di Ottana in Sardegna, la maschera di sa filonzana, vecchia rigorosamente in nero con il fuso in mano, testimonia la permanenza di questo antico culto pagano, accompagnando le maschere mostruose di boes e merdules che inscenano la lotta fra natura-cultura, bestia e domatore.
«Il mio destino è che ricordo e intesso e intreccio in un’unica corda i molti fili, quello sottile e quello spesso, quello rotto e quello intero, della nostra lunga storia, della nostra giornata tumultuosa e varia. C’è sempre un’altra cosa ancora da comprendere, un’altra dissonanza da ascoltare, una falsità da correggere» come dichiara Virginia Woolf, nel suo romanzo ‘Le onde’. Noi esseri umani non ci limitiamo al singolo filo: siamo intreccio, siamo i nostri legami. Nasciamo grazie a una relazione fra i nostri genitori. Veniamo accolti entro un legame (la madre come figura della cura).
Secondo la teoria della simulazione incarnata, specifiche reti neuronali perlopiù di carattere motorio sono in grado di ricreare un’azione che vedono agita da un individuo diverso, attivandosi come se la stessero agendo direttamente. Ciò consente all’osservatore di utilizzare le proprie risorse neurali per penetrare il mondo dell’altro ‘dall’interno’, mediante un meccanismo automatico e prelinguistico di simulazione motoria.
Questo fenomeno sostanzia l’empatia. Siamo esseri umani perché siamo in relazione con l’altro e con l’ambiente che ci avvolge: «L’empatia è la dotazione naturale mediante la quale riconosciamo l’altro come nostro simile, sentiamo come se fossimo l’altro. […] Quanto più ciò che osserviamo è congruente col nostro bagaglio di esperienza, tanto maggiore sarà l’intensità del nostro rispecchiamento» sostengono Gallese e Morelli.
Abbiamo bisogno dell’altro per individuarci, riconoscerci, costruire la nostra consapevolezza e conciliare la nostra prospettiva interna con l’esterno, in legame indissolubile. Non essendo creature che coincidono perfettamente con sé stesse, viviamo la tensione della nostra permeabilità. Siamo corpi spugnosi che assorbono stimoli dall’esterno per potersi costituire. Viviamo la dimensione della costante tensione verso l’altro, nella relazione, per poterci auto-definire: il Dasein heideggeriano, ovvero un esserci facendoci in corso d’opera, nel progetto della vita, che non è data e immobile, ma in constante adattamento.
Francesco Remotti dal punto di vista antropologico ha coniato il concetto di ‘condividuo’, che oggi anche la biologia ha sposato alla luce delle scoperte effettuate: viviamo in una dimensione di interconnessione, dove qualsiasi elemento organico e inorganico interagiscono in un costante gioco di adattamento e ricerca di equilibrio.
Anche senza la coda dei Na’vi del pianeta di Pandora (cito il film Avatar di James Cameron, 2009), una sorta eso-sinapsi, capace di mettere in connessione qualsiasi creatura vivente senza uso del linguaggio verbale, stiamo nella relazione con le altre creature e l’ambiente in cui viviamo, che plasma la nostra identità. Un’intuizione che già gli artisti visivi hanno sentito.
Ad esempio, Maria Lai (Ulassai, 1919-Cardedu 2013) artista di origine sarda realizzò una grande azione artistica nel suo paese di origine l’8 settembre del 1981, dal titolo ‘Legarsi alla montagna’. Coinvolse tutti i suoi concittadini nel passarsi da una casa all’altra del paese, annodandolo, un nastro di ventisette chilometri di jersey azzurro, chiedendo loro di rendere visibili le relazioni attraverso un codice: dove i rapporti erano amichevoli e affettivi, andava legato un pane della festa; viceversa, il nastro sarebbe stato unito da un semplice nodo.
Alla fine delle manovre, scalatori esperti legarono il nastro al Monte Gedili, la montagna più alta sopra il paese di Ulassai, luogo emblematico per il sostentamento che nella memoria collettiva era stato anche portatore di morte. La critica definì l’azione come arte relazione, in virtù del fatto che il pubblico aveva partecipato attivamente alla sua realizzazione nel corso del processo creativo. Ma l’azione fu anche un enorme dispositivo di metacomunicazione, capace di spostare il contenuto verbale della comunicazione al suo livello relazionale, simbolico, agito.
Rimanendo nell’ambito semantico, Gregory Bateson per primo individuò il doppio legame (double bind), ovvero quell’ambivalenza nella comunicazione per la quale dichiariamo qualcosa, agendo il suo esatto opposto, generando così una disconferma dell’altro, incidendo sulla percezione di sè, sull’identità, e infine destabilizzando. Una prospettiva ombrosa del legame, che sembra imperversare di questi tempi. Siamo nascosti dietro agli schermi e agli avatar, senza mettere più in campo le emozioni e l’attivazione delle reti neuronali. I nostri neuroni specchio non compiono esattamente la loro funzione di risonanza. E viviamo nella rimozione del dolore, come sottolinea il filosofo Byung-Chul Han.
Siamo sicuri che la relazione sia ancora efficace nell’epoca di iper-connessione, dove dilagano apatia e indifferenza? Agli albori di internet abbiamo sognato maggiore connessione, accessibilità, scambio, globalizzazione e democrazia, per scoprire la fragilità di questo strumento, se non accompagnato comunque da regole.
Dobbiamo tornare al corpo, alla materialità dell’esperienza sensibile, che la sfera digitale impoverisce e disambigua. Bisogna rispolverare la “relianza” di Edgar Morin, parola nata dall’unione di due lemmi francesi: Relier (unione) e Alliance (alleanza), nella sua espressione etica, cioè promuovendo tutto ciò che unisce e rende solidali, contro la divisione. In questa direzione la parola “etica” acquista un valore deontologico come corretto atteggiamento dell’uomo nei confronti di se stesso e degli altri. Lo ribadiscono anche Gallese e Morelli e presumiamo -dalle anteprime editoriali- che lo sottolinei anche Han nel libro ‘Contro la società dell’angoscia. Speranza e rivoluzione’.
E concludiamo con la suggestione dei versi poetici di un grande autore: quello che conta sono i legami.
Non sai bene se la vita è viaggio,
se è sogno, se è attesa, se è un piano che si svolge giorno
dopo giorno e non te ne accorgi
se non guardando all’indietro. Non sai se ha senso.
In certi momenti il senso non conta.
Contano i legami.
Jorge Luis Borges