Giochiamo anche noi, o siamo soltanto spettatori?

Autore

Roberto Scarpa
Roberto Scarpa, attore, scrittore e organizzatore. Ha ideato Prima del teatro: scuola europea per l’arte dell’attore. Ha pubblicato, oltre a vari saggi teatrali, Il coraggio di un sogno italiano (Scienza Express, 2013); L’uomo che andava a teatro. Storia fantastica di uno spettatore (Moretti & Vitali, 2009); Non perdo nemmeno se mi battono. Per una teoria anarchica del combattimento (con Antonio Di Ciolo; Il Campano, 2019); Non tutto qui (Nicolodi, 2004); Il viaggio teatrale di Andrea Camilleri (in Il quadro delle meraviglie, Sellerio 2015); Nenè Camilleri sugno (in Granteatro Camilleri, AA.VV., Sellerio, 2015). Ha curato la pubblicazione di due volumi di Andrea Camilleri: Le parole raccontate. Piccolo Dizionario dei termini teatrali (Rizzoli 2001) e L’ombrello di Noè (Rizzoli 2002, ristampa 2013). I suoi ultimi lavori teatrali sono: Sogni d’oro. La favola vera di Adriano Olivetti; Non muoio neanche se mi ammazzano! Giovannino Guareschi e la storia degli Internati Militari Italiani (con Luca Biagiotti) e Quando sarò un uomo. La lanterna segreta di Robert Louis Stevenson. Nel 1991 la Guildhall School of Music and Drama di Londra gli ha conferito la Honorary Fellowship.

L’uomo è pienamente tale solo quando gioca

(Friedrich Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo)

Io sono i legami che intreccio con gli altri.
(Albert Jacquard)

«Quando noi uomini non risultammo così sensati come il secolo placido del “culto della Ragione” ci aveva creduti, si dette alla nostra specie, accanto al nome di homo sapiens, ancora quello di homo faber… Tuttavia mi pare che l’homo ludens, l’uomo che gioca, indichi una funzione almeno così essenziale come quella del fare, e che meriti un posto accanto all’homo faber»

Questo scrive Johan Huizinga nella prefazione a Homo ludens, il pionieristico libro nel quale afferma che tutta la cultura emerge in forma ludica, che la cultura, cioè, «nelle sue forme originarie, porta il carattere di un gioco». 

Huizinga dice questo non nel senso che poi «il gioco muti o si converta in cultura, ma piuttosto che la cultura, nelle sue fasi originarie, porta il carattere di un gioco…». È il “gioco” ad essere: «il fatto primario, oggettivo…; cultura è la qualifica applicata poi dal nostro giudizio storico…». Però nel 1938, anno in cui il suo libro venne pubblicato, soltanto il teatro per lui manteneva il suo rapporto col gioco. Le altre manifestazioni della nostra cultura se ne erano purtroppo colpevolmente allontanate. E forse proprio questo era il motivo della crisi di un’intera civiltà.

La suggestiva ipotesi di Huizinga comporta alcune conseguenze. Nel nostro caso, per esempio, ragionando di “legami”, ne deriva che per comprendere fino in fondo le caratteristiche delle innumerevoli relazioni che intrecciamo, consapevolmente o no, nel corso della nostra esistenza dovremmo prestare molta attenzione ai giochi che preferiamo. Tali legami, che a volte ci appaiono naturali (per esempio quelli di sangue), altre volte sono da noi costruiti nel corso del tempo, e altre volte ancora sono fabbricati a nostra insaputa da qualcun altro, comincerebbero infatti ad annodarsi proprio in una attività che ci sembra innocua, il gioco. Inoltre, particolare di non poco conto nel secolo degli spettatori, dovremmo capire qual è il nostro ruolo: giochiamo anche noi o siamo soltanto degli spettatori?

È evidente però che la proposta dell’esistenza di un “homo ludens” come anello di collegamento fra “sapiens” e “faber” non ha riscosso successo. Per limitarci al campo dell’educazione, infatti, se avessimo ascoltato Huizinga avremmo dovuto modificare dalle fondamenta l’organizzazione dei nostri sistemi pretendendo che la competenza principale delle persone che educano i nostri giovani fosse una competenza ludica. Che fossero quindi dei “Magister Ludi”, vale a dire maestri di libertà, dal momento che la caratteristica prima del gioco è la decisione volontaria di farne parte e accettarne le regole. 

L’inversione dei termini, dire cioè “Magister Ludi” anziché “Ludi Magister” (che significa maestro di scuola) è resa necessaria dal fatto che la parola “ludus” serviva anche a indicare le scuole per i bambini dove però i metodi usati per indurre i discepoli all’amore per la conoscenza non erano particolarmente gentili e spesso imponevano un legame obbligatorio fra il discepolo e il sapere. 

Un bravo “Magister Ludi” avrebbe un gran lavoro da fare. E questo non tanto per convincere i suoi discepoli a giocare, perché questo lo sanno già fare spontaneamente. Dovrebbe piuttosto mostrare loro da quali giochi siano emerse le diverse forme culturali a cui intende farli appassionare incitandoli poi a proseguire quei giochi. Dovrebbe poi aiutarli a moderare la loro innata propensione ludica con la proposta di regole; aiutarli a comprendere quanti e quali nodi intrecciamo giocando, volenti o no, con i nostri simili e con il mondo; e per finire, dovrebbe aiutarli a distinguere i nodi che intrecciamo noi da quelli che invece sono intrecciati da altri, magari per manipolarci. Essere in grado di riconoscere le caratteristiche di questi nodi prima che sia troppo tardi e ci imprigionino nelle loro spire, cioè imparare a farli ed anche, eventualmente, a scioglierli, potrebbe infatti prima o poi rivelarsi una questione di importanza vitale. Le fotografie che mostrano la deportazione dagli Stati Uniti di una fila di immigrati incatenati è un esempio dei legami spiacevoli cui possiamo andare incontro, sia come vittime che come carnefici.

Insomma, se Huizinga aveva ragione dobbiamo conoscere meglio l’universo dei giochi. Siccome i giochi che decidiamo di fare ci portano a stipulare dei legami personali e sociali sarebbe salutare che ci dedicassimo a imparare a giocare meglio che possiamo. Riconoscere la nostra attitudine a perderci nella fascinazione del gioco non sarebbe soltanto utile, diventerebbe necessario. In questo suo difficile impegno il Magister Ludi potrebbe trovare un aiuto prezioso in un libro di Roger Caillois (Gli uomini e i giochi) che definisce il gioco in base a sei caratteristiche. 

La prima caratteristica è, come ho già detto, la libertà. Non si può essere obbligati a giocare. Bisogna scegliere volontariamente di farlo, altrimenti la gioia svanisce.

La seconda è che si tratta di un’attività rigorosamente separata, circoscritta con precisione sia nel tempo che nello spazio. Sono sufficienti quattro zaini per fare un campo da gioco e con un semplice gessetto si possono tracciare i confini inderogabili che delimitano lo spazio necessario a giocare all’antichissimo, intramontabile gioco della “campana”. Poi, quando la mamma chiama, il gioco finisce.

La terza qualità che deve avere è l’incertezza, il che vuol dire che non se ne possono conoscere né lo svolgimento né l’esito. Ciò che succederà dipenderà in gran parte dalle nostre iniziative, dalle nostre mosse. Coloro che non accettano questa caratteristica e si assicurano preventivamente con qualche sotterfugio la vittoria, si chiamano bari.

Il gioco deve inoltre essere improduttivo; non deve creare né beni né ricchezze. Al massimo, nel corso del gioco si può verificare uno spostamento della proprietà di qualcosa all’interno del gruppo dei giocatori. Ma il valore finale non sarà modificato.

La quinta caratteristica del gioco è che si tratta di una attività regolata, una attività cioè che è sottoposta a delle convenzioni che vengono preliminarmente concordate fra i giocatori. Queste regole, una volta accettate, sospendono temporaneamente le leggi della vita normale e instaurano una nuova legislazione che è inflessibile. 

La sesta e ultima caratteristica di ogni gioco è che instaura una situazione totalmente irreale che è generata da un’immaginazione condivisa. 

Dopo aver stabilito queste caratteristiche Caillois si domanda se il gioco è veramente uno. O, per dir meglio, se è possibile «trovare un principio di classificazione che consenta di suddividerli tutti in un numero limitato di categorie ben definite». Il numero praticamente illimitato dei giochi inventati dall’uomo parrebbe rendere questo compito impossibile. Non per lui però che è riuscito a stabilirne una classificazione che è diventata classica. 

Secondo Caillois si può suddividere il gioco in quattro categorie a seconda che predomini l’Agonismo, cioè la Competizione, l’Alea, cioè il Caso, l’Imitazione, che lui chiama Mimicry, oppure la Vertigine che chiama Ilinx. 

Infatti, si gioca al calcio, a tennis, a biglie o a scacchi. Cioè si compete.

Ma si gioca anche alla roulette o alla lotteria. E qui a prevalere è il Caso, l’Alea. 

Oppure si gioca ai pirati, a recitare il ruolo di Amleto, a travestirci a Carnevale. E in questo caso ci troviamo nel territorio dell’imitazione, del mimetismo. 

Infine, si può giocare per cercare una vertigine, per provocarci stati organici alterati, per smarrirci, per perdere coscienza di noi. Perfino per provare panico. Come facciamo da bambini divertendoci a girare vorticosamente su noi stessi. Ma si cerca la vertigine e l’ebbrezza in tanti modi: con le alte velocità, con le acrobazie, con l’altalena, con la giostra di un luna-park. In questo caso ciò che cerchiamo Caillois lo chiama Ilinx. Una parola che significa appunto ebbrezza, vertigine.

Ovviamente in molti giochi avviene che siano coinvolte due o più di queste categorie, ma ce ne sarà sempre una dominante. Nel teatro, per esempio, che rispetta perfettamente le sei caratteristiche che devono avere tutti i giochi, la categoria dominante è il mimetismo, ma non gli sono estranei né l’alea, né l’ebbrezza, né l’agonismo. Proprio per questo imparare il gioco del teatro e le sue regole potrebbe dare indicazioni molto importanti per praticare correttamente anche gli altri giochi. Per esempio, i giochi della politica e del diritto che infatti, e non casualmente, nacquero ad Atene più o meno negli stessi anni del teatro ma che, diversamente dal teatro, sembra abbiano smarrito consapevolezza della loro origine ludica. 

Queste quattro categorie, prosegue Caillois, non sono ancora sufficienti a spiegare la complessità dei giochi. All’interno di ciascuno dei quattro settori da lui individuati – competizione, caso, imitazione, vertigine – i giochi possono ancora essere distinti secondo due principi, la Paidia e il Ludus, che non sono due nuove categorie ma definiscono il nostro modo di giocare. 

Quando prevale la Paidia, nel gioco regna il divertimento, la libera improvvisazione, la spensieratezza. Una bambina di un anno non ha bisogno di regole per divertirsi a giocare. Il Ludus prevale quando compaiono convenzioni e regole che hanno lo scopo di rendere più difficile raggiungere il risultato finale. In sostanza, la Paidia è la potenza primaria del gioco, la sua sorgente. A questa spensieratezza, alla gioia che proviamo fin da piccoli giocando, ben presto sentiamo il bisogno di aggiungere regole sempre più precise. Sono queste regole che trasformano il gioco in Ludus e danno origine ai diversi giochi che conosciamo. Il Ludus cioè disciplina la Paidia, un po’ come fanno gli argini con lo scorrere di un fiume impetuoso. 

Huizinga ci ha stupiti affermando che la nostra cultura scaturisce interamente dal gioco. Caillois dice qualcosa di più preciso. I giochi hanno una funzione civilizzatrice e ci aiutano a comprendere in che tipo di società viviamo. A suo parere c’è una chiara parentela fra ogni società e i giochi che vi si praticano di preferenza; fra le regole in base alle quali giochiamo e le qualità e i difetti che mostriamo poi nei nostri comportamenti collettivi; perciò, le forme e l’avvenire delle diverse organizzazioni umane dipendono dal ruolo che attribuiamo, appunto, alla competizione, al caso, all’imitazione, all’ebbrezza. L’obiettivo di Caillois è infatti quello di fondare una sociologia a partire dai giochi, fare la diagnosi di una civiltà partendo dai giochi che vi riscuotono successo. Si potrà addirittura giungere ad una classificazione delle società di tipo scientifico, come si riesce a fare nella botanica o nella zoologia. Le quattro diverse motivazioni che ha individuato come le molle che ci spingono al gioco indicheranno quale sarà la vita e il destino di quelle forme sociali, le sue debolezze e le sue virtù. 

Caillois fa l’esempio delle prime comunità umane che, per conquistare il favore degli dèi, propiziare la caccia, la pioggia, buoni raccolti, si dedicavano di preferenza a feste e cerimonie. Alcuni individui iniziati, gli sciamani, indossavano maschere che li trasformavano in divinità o in animali feroci. In quelle occasioni, con canti e danze, e talvolta con l’uso di sostanze stupefacenti, si raggiungevano stati di coscienza alterati. Prevalevano cioè giochi di mimetismo e di ebbrezza. Le società successive, urbanizzate e burocratizzate, con il crescere della loro complessità hanno poi iniziato a dedicarsi ad altri giochi in cui gli elementi del merito e del caso sono diventati via via sempre più importanti. Ad Atene, per esempio, per correggere le disuguaglianze sociali ci si affidava alla fortuna e molti magistrati, perfino i membri del Consiglio, venivano eletti tirando a sorte. Perché lo facevano? Non certo perché erano ingenui. Si erano accorti che i sistemi elettivi erano agevolmente corrompibili e che pochi uomini, gli oligarchi, potevano controllare lo svolgimento degli scrutini e truccarne l’esito. Fu questa consapevolezza che li portò a considerare la sorte il sistema egualitario per eccellenza e li convinse ad affidarsi al suo verdetto. Solo le cariche che richiedevano elevate competenze tecniche invece, per esempio quelle militari, erano riservate ai cittadini più meritevoli i quali probabilmente avevano avuto modo di segnalarsi nel corso dei tanti giochi agonistici che venivano organizzati. 

Fin dalle sue origini quindi la democrazia oscillava in modo significativo fra la competizione e il caso, considerate entrambe forme di giustizia. Cosa che vale anche oggi, come dimostra il nostro attuale contratto sociale che è un chiaro compromesso fra le nostre condizioni di nascita, vale a dire il caso, e le nostre effettive capacità, vale a dire la competizione. I legami sociali, che nelle società antiche erano assicurati dall’imitazione e dalla vertigine, vengono ai nostri occhi garantiti da giochi basati sulla competizione e sul caso. La conseguenza del fatto che i giochi che preferiamo esaltano o lo spirito della competizione o quello dell’aleatorietà fa sì che l’unica forma di civiltà che ci sembra concepibile si esprima in un equilibrio tra merito e sorte. Per essere più precisi: da forme degenerate dei giochi che ci propongono la competizione e il caso come stili. 

Un capitolo intero del libro I giochi e gli uomini, Caillois lo dedica a descrivere questi fenomeni degenerativi, cioè a capire che cosa accade quando le regole dei giochi vengono infrante. Perché se Huizinga ha ragione e la cultura nasce in forma di gioco, è plausibile immaginare che anche le degenerazioni dei giochi diano origine a fenomeni culturali imprevisti e spiacevoli. A ognuna delle quattro categorie che descrivono la nostra propensione al gioco corrisponde, infatti, una perversione specifica.

La perversione della competizione, si manifesta quando l’agonismo diviene forsennato, ossessivo. Ci si dimentica che l’agonismo sano è stato preceduto da un incontro in cui si è deciso di accordarci su una cornice di regole. Questo accordo avviene a vari livelli di complessità: vale tanto per una sfida fra due schermitori che per scrivere le regole della Costituzione di un paese. Quando ci si dimentica che un tempo si era collaborato per definirle avvengono le cose più strane, a volte tragiche, a volte buffe. Ricordo un padre che ad un campionato nazionale giovanile di scherma si affannava a bordo pedana a urlare a suo figlio di stare calmo. «Stai calmo!», «Stai calmo!», gli urlava tutto rosso in volto. Sembrava posseduto da un démone. Era chiaramente sconvolto dal fatto che il figlio avesse subìto alcune stoccate secondo lui imperdonabili. Stava ovviamente infrangendo un bel po’ di regole della scherma. Ma ne era ignaro. Soprattutto era ignaro del fatto che l’unico a non essere calmo era proprio lui e che ciò che comunicava al figlio era tutt’altro che la serenità. 

Un agonismo che dimentica il fair play, la collaborazione, la gentilezza, è un agonismo malato, qualcosa che somiglia all’odio. Accade quindi, per esempio, che non si riconoscano più valori e significati che si nascondono anche nella sconfitta. Non sopportandola se ne ignorano i possibili insegnamenti. Stefano Bartezzaghi ha espresso questo concetto intitolando un suo recente libro con un fulminante gioco di parole: «Chi vince non sa cosa si perde». E un grande tennista, che di questo è consapevole, ha detto: “O vinco, o imparo”. È impossibile dire meglio di loro. 

Oppure accade, e sta accadendo frequentemente, che si metta in dubbio il ruolo super partes dell’arbitro. Chi perde rovescia il tavolo, solleva sospetti di trucchi, di complotti diabolici a suo danno. Insomma, non si rispettano più le regole del gioco leale che avevamo stabilito assieme, e in conseguenza prevalgono la violenza, la volontà di potenza, l’astuzia e l’inganno. Callois a questo proposito si esprime così: 

«Accettare l’insuccesso come un semplice contrattempo, la vittoria senza ebbrezza né vanità; questo distacco, quest’ultima riserva nei confronti della propria azione, è la legge del gioco. Considerare la realtà come gioco, dare maggior spazio a questo atteggiamento nobile e magnanimo che allontana, mortifica l’avarizia, l’avidità e l’odio, è far opera di civiltà».

La degenerazione dell’alea si manifesta invece con i fenomeni della superstizione e con la diffusione di lotterie, astrologia e oroscopi. La crescita pandemica di questi giochi deriva in gran parte dal fatto che non crediamo più che il merito (cioè studiare, impegnarsi nel lavoro) possa migliorare le nostre condizioni di vita. La competizione è truccata, l’ascensore sociale è irrimediabilmente guasto. Sono nato povero, lo resterò qualunque cosa faccia. L’unica speranza che ho è nella fortuna. 

La corruzione dell’imitazione si verifica invece quando la mimesi non è più ben compresa e colui che è mascherato crede alla realtà del travestimento, si convince di essere quel personaggio, si dimentica il suo vero essere. Questo sdoppiamento della personalità accadeva qualche volta ai monarchi e accade oggi ai dittatori. Per i nostri progenitori greci si trattava di un peccato gravissimo, il peccato di hybris, di tracotanza. Gli dèi si sarebbero vendicati. 

La degenerazione dell’ebbrezza avviene quando, per provocarci vertigini e perdite di coscienza, ci affidiamo ai poteri della chimica, alle droghe e all’alcool. Nei riti antichi ci si proteggeva da questi eccessi. Le ebbrezze erano ammesse, ma soltanto in spazi recintati e protetti, ben separati dalla vita normale. Una cautela che oggi abbiamo perso. Ci ubriachiamo e ci mettiamo alla guida. 

Nel descrivere queste degenerazioni Caillois è stato lucidamente profetico. In tutte queste degenerazioni non rispettando più una, spesso più d’una, delle regole del gioco ci collochiamo ai suoi antipodi e ne distruggiamo lo spirito. 

Il caso dell’agonismo è esemplare. Abbiamo osservato già che nei giochi agonistici prima di competere è necessario che si siano stabilite delle regole e che si sia pattuito di rispettarle. Questo significa che il gioco stabilisce un legame indissolubile fra noi e quelle regole, fra noi e chi compete con noi. Chi rompe quel legame esce dal gioco. Il primo legame che accettiamo nei giochi competitivi è cioè un legame collaborativo. Colui o colei o coloro con cui ci misuriamo nella sfida non è, non sono nemici perché abbiamo preliminarmente collaborato nel processo attraverso il quale prima abbiamo stabilito delle regole ferree e poi abbiamo promesso di rispettarle. È sotto i nostri occhi che questa degenerazione dell’agonismo sta corrodendo le regole della convivenza democratica e i legami di cittadinanza.  Tanto che, secondo le ultime stime di Freedom House, un’organizzazione indipendente con sede a Washington, soltanto il 20% della popolazione mondiale vive in democrazia, mentre il 38% si trova in condizioni di totale assenza di libertà e il 42% vive in regimi parzialmente autoritari. 

Il legame che accettiamo nei giochi aleatori, in cui il nostro avversario è la fortuna, è una specie di patto con il destino in cui decidiamo di accettare l’esito della sorte, qualunque esso sarà. Non spareremo al croupier se non uscirà il numero su cui abbiamo puntato la nostra posta, né punteremo l’arma contro di noi. Ma se il destino, per esempio le diverse condizioni di nascita, assume le sembianze di una sentenza immodificabile che costringe a fuggire dal luogo di nascita rischiando la vita, è evidente che diviene impossibile accettarlo. 

Il legame che accettiamo nei giochi mimetici è che sapremo stare contemporaneamente dentro e fuori del gioco. Ci trasformeremo momentaneamente in un’altra personalità, quella della maschera che indossiamo, ma non crederemo completamente in questa metamorfosi. Sapremo sempre deporre la maschera al momento opportuno. 

Qualsiasi bambino questo lo sa perfettamente. A proposito del rapporto tra gioco e realtà, Huizinga racconta la storia di un suo amico che, tornando dal lavoro, era andato a salutare suo figlio di quattro anni e l’aveva trovato che giocava nella sua stanza. Il bambino era tutto solo, aveva composto una fila ordinata di sedie, e giocava al trenino stando seduto sulla prima. Il padre si chinò per baciare suo figlio. Lui però lo fermò e con aria molto severa gli disse: 

«Babbo, non devi baciare la locomotiva, se no i vagoni credono che non sia una cosa seria». 

Questa frase geniale sottintendeva tante cose. Tanto per cominciare che quel bambino non aveva perso la cognizione di sé, infatti, chiamava suo padre “babbo”. Al tempo stesso però sapeva anche che stava fingendo di essere una locomotiva e che perciò le altre sedie erano dei vagoni. Sapeva cioè stare contemporaneamente dentro e fuori dal gioco. Cosa che chiese di fare anche al padre: di non contagiare il gioco con le regole della vita vera. Insomma, se sono una locomotiva non devi baciarmi. Perché per giocare bisogna fare sul serio e non confondere mai realtà e finzione. 

Il legame che accettiamo nei giochi di vertigine è un legame temporale. Cercheremo uno stato alterato di coscienza ma lo faremo in uno spazio protetto e per un tempo limitato, terminato il quale torneremo in noi stessi.

I giochi, cioè, possono insegnarci a stabilire dei legami corretti con la nostra coscienza e con coloro che giocano assieme a noi oppure, quando le sue regole vengono infrante o male interpretate, possono al contrario indurci a stringere o accettare di essere avvinti in nodi che somigliano a catene o capestri. 

Le degenerazioni delle regole segnalate da Caillois ci aiutano a comprendere quel che accade oggi nei giochi della politica e del diritto. È possibile fare come quel bambino che chiese al padre di non baciarlo e provare come lui a restaurare regole corrette? Forse il teatro, secondo Huizinga l’unica forma della cultura che ha mantenuto il suo rapporto con il gioco, può aiutarci con qualche suggerimento. 

La prima regola del teatro, infatti, è che la verità è contendibile. Se la contendono i personaggi in scena, se la contendono gli spettatori in platea. Il che significa, fra l’altro, che il teatro, con buona pace di chi pensa il contrario, è molto interessato alle verità. Non solo alle nostre, anche a quelle degli altri a quelle di tutti. In fondo, chi non ha ragione? In teatro, come nel romanzo, tutti hanno ragione, tutti hanno diritto ad essere compresi, tutti hanno diritto a raccontare la propria storia. E proprio per questo il teatro mette sempre in dubbio la verità e la rende una materia contendibile. Questi due gesti – il dubbio e la contesa – nell’era dell’Intelligenza Artificiale che ha reso fragile lo statuto della verità, sono divenuti più che mai urgenti. Occorre impegnarsi per restaurare le regole necessarie a contendersi correttamente la verità e il teatro è uno dei luoghi e dei giochi adatti a questo.

La seconda regola del teatro è, infatti, che in questa contesa si deve collaborare: si vincerà o si perderà tutti assieme, attori e spettatori. Perché l’agonismo in teatro – e l’auspicio è che torni ad essere così anche in politica e nel diritto -, è un agonismo collaborativo.

E quindi, per concludere con una piccola utopia: siamo seri, impariamo di nuovo a giocare. Impariamo di nuovo a non essere soltanto spettatori di giochi che hanno altri protagonisti. Abbiamo buoni motivi per farlo. Il primo è che il ruolo di spettatore, come ha scritto Josif Brodskij in Profilo di Clio, non è innocuo:

«Forse l’aspetto più deleterio della metafora teatrale è che introduce nella nostra mente la sensazione di essere spettatori, di osservare dai palchi quanto accade sul palcoscenico, farsa o tragedia che sia. Se anche questa condizione fosse davvero possibile, di per sé sarebbe una tragedia: la tragedia della complicità; vale a dire una tragedia di natura etica…». 

Non è facile indicare come e dove avvenga il passaggio da spettatore a complice. Zygmunt Bauman suggerisce che ciò avvenga in due modi: si può negare la conoscenza dei fatti – «Non sapevo che accadessero cose così terribili all’estremità della catena di azioni di cui la mia azione non era che uno dei tanti anelli» -, oppure si può negare di avere avuto la possibilità di intervenire. Quando la tesi dell’ignoranza perde di credibilità, e nel tempo di internet è divenuta quasi impossibile da sostenere, si ricorre all’alibi dell’impotenza. Oggi dobbiamo tutti ricorrere spesso a questo stratagemma per assolverci: in fondo che ci posso fare io? Niente. 

Ma è davvero questa una buona scusa per non muovere un dito? Permetterei a un amico ubriaco di mettersi al volante? Assisterei in silenzio a uno scherzo razzista, misogino o omofobo? Potrei in questi casi dire che essere soltanto spettatore equivale ad essere innocente? E i «veri colpevoli», si abbandonerebbero alle loro azioni malvagie se non sapessero di poter contare sull’indifferenza di chi li circonda? 

Per dirla in breve, esistono ottimi argomenti per imputare allo spettatore quanto meno una colpa di omissione. Bauman ammette che provare a uscire da questa condizione coatta, dal nodo scorsoio stretto attorno alle nostre menti dai padroni del web, ha tutta l’apparenza di un sogno nebuloso. Un’utopia appunto. Eppure, chiunque abbia giocato sa che il ruolo di giocatore è preferibile rispetto a quello dello spettatore.

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