Ci sono parole che sanno conquistarsi uno spazio semantico che si amplia con l’uso, anziché saturarsi. È come se si generasse ogni volta, e per addizione, un’ulteriore componente della già ricca famiglia di significati. La parola partenza recepisce in sé una costellazione di sensi pressoché infinita senza per questo veder esaurite le proprie possibilità espressive. L’ambiguità la caratterizza. E si sa, l’ambiguità non è l’equivoco, ma è la contingente ed ineliminabile compresenza di più significati che sono costitutivi dell’esperienza e delle situazioni, nonché delle parole per dirle. Partenza, ad esempio, è ineluttabilmente inizio e fine, perdere e trovare, dimenticare e ricordare, scoprire e nascondere, e, per non continuare più o meno all’infinito, nascere e morire. L’uso di una singola parola implica, infatti, l’esistenza di una sinergia profonda tra ambiti espressivi a prima vista contrastanti, ma capaci di creare un continuum, nel quale i singoli significati possono essere evocati simultaneamente. Come il tempo notturno nell’Esodo biblico, che è quello in cui più frequente si presenta l’insidia dei nemici, ma è nondimeno il momento che permette la fuga, l’esodo, la partenza, appunto, trasformando in liberazione l’angoscia dei perseguitati e dei vinti. Il distacco originario, la partenza primigenia, di ogni nascita, è perdita di una condizione probabilmente paradisiaca, per trovarne un’altra, la propria, unica, incerta, spesso infernale. La partenza è sempre “spartenza”, ma da quel conflitto estetico nasce l’autonomia di ogni vita, che sarà tale solo in quanto dipendente dalle condizioni che la rendono possibile. E da questa che forse è la più profonda delle ambiguità si diparte ogni storia di ciascuna vita.