Misurarsi con la dimensione dell’educazione per comprenderne le dinamiche fondamentali ed intercettarne così le virtualità e le tensioni implicite pare oggi un’impresa quasi impossibile da affrontare anche per coloro che debbano curarsi della cosa per ragioni d’ordine professionale. Lo si può constatare tanto frequentando i consigli di classe delle nostre scuole (e la burocrazia ad essi intrinsecamente ed insuperabilmente connessa), quanto indugiando sulle pagine della letteratura scientifica d’ambito, tese a mostrare come l’educazione sia un’azione articolata, composita, legata costitutivamente a molteplici polarità dell’esistenza umana. Sia per gli uni che per le altre l’opera educativa non può che venir osservata da una pluralità di punti di vista, ponendosi al tempo stesso come apertura cognitiva, ragionamento, empatia, coscienza, ma pure come stimolo alla curiosità, capace di portare al centro del processo di apprendimento il desiderio di scoprire ed esplorare nuovi orizzonti del sapere (ponendo – beninteso – domande che non prevedano nei discenti alcun tipo di risposta standardizzata) e come processo idoneo a costituire formae mentis metacognitive, disposte alla flessibilità e all’improvvisazione.
Quanto detto basterebbe da solo a testimoniare come il campo in questione sia un ginepraio! Se poi, oltre che col presente, s’intende fare pedagogicamente i conti col futuro, beh, la situazione non può che rivelarsi ancor più intricata… Come può, d’altra parte, un’educazione che sia al passo coi tempi non essere attenta ai ritmi e alle direzioni degli attuali sviluppi tecnologici? O non badare alla vita delle idee, cioè alla molteplicità degli andamenti che determinano, nel mondo in cui viviamo, la ricerca scientifica? O non occuparsi della rapida obsolescenza delle stesse professioni, investendo intensivamente su un sapere multidisciplinare atto a fornire mappe affidabili per orientarsi in un contesto sociale e lavorativo in continuo cambiamento? O, ancora, non vigilare sulle modalità con cui il diffondersi delle informazioni sulla rete sta trasformando radicalmente le forme tradizionali di trasmissione del sapere?
È da questa fattispecie di interrogativi che, fondamentalmente, scaturisce il profluvio di abilità e competenze che i nostri ragazzi dovrebbero possedere per potersi dire pienamente maturi e su cui la scuola sembrerebbe chiamata a regolarsi. Abilità e competenze, dunque! Cosa s’intenda con tali termini è presto spiegato: le prime starebbero ad indicare genericamente l’attitudine ad applicare conoscenze e ad usare know-how per portare a termine compiti e risolvere problemi; le seconde, invece, dovrebbero rimandare alla comprovata idoneità della persona ad utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale.
Ora, viene spontaneo chiedersi quali abilità e competenze occorra che la scuola, in primis, persegua. L’interrogativo non è ozioso e meriterebbe un’ampia tematizzazione. Se, tuttavia, ci prendessimo la briga di scorrere le corposissime liste di abilità e competenze elaborate dalle pedagogie del possibile e del trascendentale, dalle didattiche della contaminazione culturale e della tensione ermeneutica propensa a farsi ricoprire da più pelli antropologiche e dalle teorie educative più illuminate – quelle delle ibridazioni epistemiche e dell’amore coraggioso per i tramonti dei dogmatismi, dei fondamentalismi e delle metafisiche (sigh!) – ci stupiremmo sicuramente di come in esse non ci sia spazio alcuno per la componente dell’ironia e per quella ancor più decisiva dell’autoironia, due soft skills in un certo qual modo cruciali per poter stare realisticamente (e quindi, adeguatamente) al mondo.
La verità di quest’assunto risulta lampante qualora si rifletta un poco sulla natura delle polarità in gioco, due vere e proprie categorie pedagogiche in grado di determinare un salutare distacco del soggetto dall’immediatezza di ciò che gli si mostra e da se stesso e di dar luogo ad uno sguardo sull’Intero obiettivo e, insieme, critico, capace cioè di neutralizzare – come dice Hegel nella Fenomenologia dello Spirito – la presunzione priva di raziocinio di verità belle e fatte, di presupposti assunti a priori che impediscono a chi si regoli su di essi di mettersi in discussione e di comprendere autenticamente l’esistente².
Da un lato c’è l’ironia, dispositivo intenzionale che – come osserva Vladimir Jankélévitch – dissimula esibendo e fuorvia manifestando (benché in modo indiretto e obliquo³), conducendo ciascuno a non assolutizzare il relativo che ha di fronte. Se tale relativizzazione concerne appunto qualcosa di effettivamente relativo, l’ironia è un atteggiamento non solo sano ma pure essenziale per arrivare a gerarchizzare le cose e dare così la giusta importanza alle realtà che l’hanno, evitando, al contrario, di dar credito a ciò che non ne ha o ne ha molto poca. Ebbene, cosa c’è di più importante di questo in sede educativa? Forse nulla, a patto che s’intenda l’educazione in senso personalista – cioè non individualista né sociologista – come ammaestramento della coscienza personale al riconoscimento del vero e non si dimentichino (o si misconoscano) i fini dell’educazione confondendoli con i mezzi⁴.
Grazie alla sua capacità di ribaltamento, l’ironia ci insegna a superare la dissonanza tra ciò che appare e ciò che è: portare tale dimensione al centro del processo educativo, così come del dibattito pedagogico, è di centrale importanza giacché vuol dire abituare il soggetto alla curiosità e allo stupore verso ciò che non conosce e aprirlo al confronto con altri per giungere alla co-costruzione di un pensiero condiviso. Vista in questa chiave, l’ironia non si manifesta come un gioco solitario, ma come un rito, come una prassi politica che si fa condizione indispensabile per gettare le basi di una società equilibrata nel senso più vivo e genuino del termine.
Dall’altro lato c’è l’autoironia, una forma di ironia – per così dire – autoreferenziale, nella quale il bersaglio polemico non si identifica con l’interlocutore, ma con il locutore stesso. Fare autoironia non vuol dire soltanto saper ridere di se stessi; significa anche e soprattutto osservare i fenomeni più strettamente legati all’orizzonte personale uscendo dalla propria cornice di riferimento per guardarli da altri punti di vista, attestando potentemente la piena autocoscienza della propria limitatezza e della propria fragilità. Proprio per questo la postura dell’autoironia si pone come condizione fondamentale per abitare il mondo postmoderno, uno scenario che richiede al soggetto la specialissima attitudine a non sottrarsi ai paradossi del tempo presente, ma a viverli come occasione e come risorsa di crescita, correggendone storture e contraddizioni. È alla luce di queste intuizioni che ritengo si possa scorgere nell’ironia e nell’autoironia due competenze decisive innanzi ai bisogni di una società complessa che per essere compresa e interpretata richiede una mente altrettanto complessa o, più propriamente, una mente capace di de-costruire il negativo per sintonizzarsi sul positivo, andando ben oltre ogni pensiero unico, funzionalista e omologato. Che dunque abbia ragione chi – sulla scorta di Pascal⁵ – pensa che farsi ironicamente beffe di una certa educazione, sia fare educazione per davvero? Pare proprio di sì!
¹ Cfr. F. Frabboni, La scuola rubata, Milano, Franco Angeli 2010, p. 33
² Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Milano, Bompiani 2017, p. 133.
³ Cfr. V. Jankélévitch, L’ironia, Genova, Il Melangolo 1987, pp. 33-34.
⁴ Cfr. J. Maritain, Per una filosofia dell’educazione, Brescia, La Scuola 2001, pp. 61-62.
⁵ Cfr. B. Pascal, Pensieri, 4, Torino, Einaudi 1967, p. 8.
Una sana dose di ironia e autoironia sarebbe sl momento presente la vosa piu’ urgente!
Troppo spesso incappiamo in elementi o sistemi aitoreferenziali…che coartano finanche il sano proncipio di realta….
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