Ho sempre pensato all’ironia come a un pizzico di sale. Niente è più soggettivo di “un pizzico”. Si entra nel mondo delle sottigliezze e delle sfumature. L’ironia è sottile e sapida. Gli ingordi non la percepiscono, essendo la quantità il loro unico interesse. Quando nei suoi non sempre affollati concerti Freak Antoni riceveva un “Bravo!” dalla platea si lasciava sfuggire un lieve sorriso e sussurrava nel microfono: “Buongustaio…”. Già, il gusto (ecco qualcosa che nessun computer potrà mai avere: elaborerà sempre e soltanto delle statistiche). Quanti volumi per descrivere il gusto, e quanti se ne scriveranno. Abbiamo gli stessi organi sensoriali gustativi – papille gustative – e più o meno le stesse retine ma non sentiamo gli stessi sapori e non vediamo le stesse cose. De gustibus… che convinzione ingannevole. Raramente si registra una dialettica gusto A-gusto B, l’adagio popolare allude alla dialettica impossibile gusto-non gusto. Giochetti avanguardistici a parte, si pensi alla dialettica musica-rumore. Il risultato è sempre lo stesso e non concede alternative, possiamo soltanto concludere con un netto: è inutile parlare con te. Insomma, qual è la dose giusta di ironia? Se è così sottile non possiamo sbagliare quando la maneggiamo. Di certi grandi autori mi è capitato di pensare: peccato sia completamente privo di ironia. Forse a volte era così sottile che è sfuggita anche a me, suo estimatore ostinato. Del resto molti grandi autori se la sono vista negare dai lettori anche quando l’avevano voluta mentre componevano. Cechov e Kafka, i primi nomi che mi vengono in mente, sono stati eseguiti dai lettori-spettatori-interpreti leggendo le stesse note ma in altra tonalità. Se l’ironia è sottile, quale processo cognitivo dobbiamo assimilare per riconoscerla? Sottile (come Minore in musica) significa secondario? No, come il sale si quantifica in qb, quanto basta. Sottile può anche essere qualcosa di micidiale: la lama di un bisturi, che trasforma la superficie in profondità e svela la complessità dell’arcano. Cechov non era benestante e conosceva le asprezze della vita reale e del lavoro. La sua ironia è paradossale come la realtà. È in bella evidenza ma difficile da separare dall’etica astratta. Nella sua opera teatrale più famosa, Il giardino dei ciliegi, è a volte sottolineata dalla raccomandazione tra parentesi (ironia) più spesso in chiara evidenza nella sua volontà autoriale. Prendiamo la figura minore, che rappresenta anche lui la stessa tonalità decadente che riguarda l’intera famiglia padronale: il vecchio servo Firs. Le sue poche ma decisive battute ci spiegano non soltanto l’ironia, ma ci offrono una chiave per comprendere anche il presente. A un certo punto si sente il canto di un uccello notturno. Liubov si chiede: cos’è? Lopachin, Gaiev e Trominov ipotizzano: un airone, un fenicottero… un gufo! L’intervento del vecchio Firs è netto: «Prima del disastro ci fu una cosa simile… la civetta strideva, e il samovar fischiava dalla mattina alla sera…». Gli chiedono: quale disastro? Firs risponde senza esitare: «La liberazione degli schiavi». Che Firs sia il vero simbolo di un’epoca al tramonto (che naturalmente darà vita ad altre forme di schiavismo) ce lo dice il finale dell’opera: resta soltanto lui, dimenticato, nella casa dei ciliegi. Si sente il rumore della sega che uccide gli alberi nel giardino. Parlotta tra sé, si siede sul divano. «Se ne sono andati. Si sono scordati di me… Non fa niente…io mi metto qua. E Leonid Andrieic, figurati! Non si sarà messo la pelliccia! Se ne sarà andato col paltò. (Sospira) Ha approfittato che non c’ero io… Testa dura! Gioventù! La vita è passata e io… è come se non l’avessi vissuta. (Si sdraia) Sdraiamoci qua… Non ho neanche più la forza… se n’è andata… vai vai, rammollito!». Per certi versi l’ironia appare in chiave quasi grottesca: ma come! Sei proprio schiavo nella testa! Non hai voluto accettare la liberazione perché quella era la conformazione del mondo voluta da Dio, e i tuoi padroni ti dimenticano come due vecchi scarponi abbandonati in cantina. Proviamo a usare la parola: riconoscenza. Una vita piena di preoccupazioni per le infreddature di padrone e padroni capricciosi e infantili, piena di attenzioni e lavoro continuo. Il ruolo politico di Firs nella pièce è il più conservatore. Ironia del destino, si potrebbe chiamare in questo caso. È vecchio e rimbambito, può anche essere dimenticato senza pentimenti. La percezione superficiale del personaggio ce lo trasforma in una figura ottusa e pietosa. Un cane abbandonato che non si vuole portare in vacanza. Ma coglierne l’ironia, che certamente era ben presente nella mano dell’autore, significa anche percepire una sorta di antica saggezza, in quest’uomo che ha servito una vita una famiglia di ingrati, un sentimento inscalfibile che lo trasforma in un Buddha sereno: «Non importa». Infatti si mette comodo, si lascia andare come un salmone che ha deposto le uova. L’ironia si trasforma in destino. Perché liberare la schiavitù se la liberazione non è altro che una nuova forma di sudditanza? Le illusioni possono rendere la vita ancora più amara. Ma si può sorridere di un destino così? Si può sorridere leggendo la storia di un impiegato che muore di rimorso per aver starnutito sulla testa di un boss? Sì, possiamo anche sorridere, ma solo…qb! Se qualcuno volesse sapere proprio tutto quel che c’è da sapere sull’ironia e sulla sua enorme forza poetico-narrativa può approfondire la conoscenza di uno dei più grandi romanzi di tutti i tempi: The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman. Laurence Sterne, ormai quasi tre secoli fa, nutrito dalla più bella filosofia del mondo occidentale, donava al mondo il segno sottile della sua meravigliosa ironia.