Credo che sia difficile pensare oggi a una disposizione per il mondo tanto inattuale quanto quella ironica; quale che sia l’aggettivo cui la parola ironia si accompagna, che si parli cioè di ironia socratica, di ironia tragica, di ironia romantica, e che in tal modo si faccia transitare l’ironia in un universo singolarmente consonante qual è quello del discorso retorico e filosofico, o che l’ironia transiti piuttosto, tragicamente appunto, nell’ambito del destino e del divino, nonché – con una sovrapposizione essa stessa ironica, a ben vedere – in quello della rappresentazione, o che in certo modo “direttamente” l’ironia si manifesti in senso romantico nell’ambito della creazione di mondi di parola e che con ciò si voglia soppesare la consistenza della parola rispetto all’umano e dell’umano di fronte alla parola – in tutti questi casi l’ironia presuppone una disposizione al guardare attraverso il mondo, a scorgere nella parola quella sottilissima incrinatura, quella fessura e quella disposizione obliqua, mediante la quale la parola stessa si disloca rispetto a sé stessa, appare altra proprio perché rimane la stessa.
In questo senso – mi spingerei a dire – l’ironia manifesta anche una critica quasi inavvertita (e perciò tanto più notevole) nei confronti della propensione al discorso metaforico, nel senso che a differenza del “portare altrove” di quello, l’ironia “apre il qui”, ne rivela energie che decisamente si sottraggono alle regole vigenti.
Non è viceversa fra i risultati minori del pensiero romantico, nell’epoca che vede la nascita del discorso estetico moderno, la sottolineatura dell’affinità fra ironia e riflessione. La capacità di attribuire significato teoretico appunto alla riflessione, cioè alla differenza colta nel riflesso speculare, al “ritorno su di sé” della percezione nell’apprezzamento estetico, non solo permette di riconoscere il gusto e il piacere estetico secondo quella loro valenza non a caso definibile speculativa, ma avvalendosi della riflessività della parola poetica, dell’immagine, del sensibile, apre a un immaginare decentrandosi che forse è fra le risorse oggi più necessarie, e al tempo stesso più inattuali o inattuate nel discorso pubblico.
Il nostro mondo, così interessato alle tecnologie “immersive” e all’intelligenza artificiale, al virtuale e alla multimedialità, sembra avere dimenticato la capacità di scorgere quel movimento ironico della presa di distanza da sé da cui pure si generano, al tempo stesso, il due e l’uno.
La riduzione della parola alla mono-dimensionalità del populismo attuale (che blateri indecentemente di “difesa della Patria” o si inerpichi incurante della propria palese inadeguatezza con pronuncia improbabile verso l’“infosfera globale”) rischia davvero di compiere un travisamento giuli-vamente apocalittico del grande dono del linguaggio umano.Se infatti è vero che per il tramite della parola l’essere umano nel suo plasmare, modellare, conoscere e ricordare il mondo acquisisce la capacità dell’agire riflessivo, acquisisce cioè la capacità di riflettere sull’azione mentre essa si compie e di intervenire sul tempo vissuto e sul significato di tale compiersi, e se ancora di più è vero che nel pronunciarsi stesso della parola umana – nell’intervallo fra la bocca che pronuncia e l’orecchio che ascolta – si avverte quell’uscire da sé in cui si esprime il bisogno dell’altro e la nascita di un “io” che chiede e offre cura (si pensi alla relazione di parola fra la madre e il figlio), la parola a una sola dimensione della violenza verbale oggi al potere, riducendo la parola a oggetto, arma da brandire, non solo si manifesta come radicalmente incapace di ironia, ma per questo tramite toglie all’essere umano il tempo e la cura che gli sono dovuti.