Nel 2016, Niccolò Fabi cantava Facciamo finta: «Facciamo finta che posso schioccare le dita / E in un istante scomparire / Quando quello che ho davanti non mi piace, non è giusto / O semplicemente mi fa star male […]».
Perché fingiamo? Generalmente questo verbo si porta dietro un’accezione negativa, moraleggiante: richiama parole come “simulazione”, “ambiguità”, “manipolazione della verità”.
Ma fin da bambini abbiamo bisogno di fingere, di simulare attraverso il gioco simbolico, per fare ordine nelle emozioni, per comprendere il mondo, per fare le prime domande sull’esistenza. Abbiamo bisogno di immaginare altri mondi diversi dal nostro, a volte magici, alternativi alla realtà che impariamo a conoscere. Piaget è il primo a inquadrare la valenza del gioco simbolico e della finzione nell’età infantile, dichiarando: «I giochi simbolici aggiungono all’esercizio stesso la dimensione della simbolizzazione e della finzione, della capacità di rappresentare, attraverso gesti, una realtà non attuale».
«Dai, facciamo finta che…» è l’invito che un bambino rivolge a un altro, dalla forte valenza relazionale, che pone la finzione come metodo per entrare in contatto, fare ordine nel caos, provare sulla propria pelle qualcosa che piace, per scongiurare la paura, per assimilare e distinguere le emozioni, per stimolare l’immaginazione. I bambini improvvisano senza un copione prefissato e prendono accordi su quale ruolo devono interpretare, sperimentando anche il dialogo, l’ascolto, l’interazione con l’altro. L’adulto a volte cede all’invito, a volte giudica: «Sono cose sciocche», senza ricordare quella fase evolutiva che lo ha condotto fino a quel punto, che gli ha permesso di costruire quella meravigliosa condizione per la quale ogni volta che legge un libro, vede uno spettacolo teatrale o contempla un dipinto, si lascia andare e compartecipa a quella storia, visualizzandola. Anche lì sta facendo un gioco di finzione, un gioco di rappresentazione.
«Io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura» scriveva Leopardi nel canto de L’Infinito. La poesia, del resto, nasce proprio alla soglia della finzione, in un gioco simbolico fatto di parole ricombinate, capaci di scardinare le regole del linguaggio.
Nel libro Mimesi come far finta. Sui fondamenti delle arti rappresentazionali del 1990, tradotto in italiano per i tipi di Mimesis, Kendall L. Walton sostiene che molte delle attività culturali che agiamo sono giochi di “fare finta”: la narrazione e la rappresentazione visiva sono parte fondante di un gioco simbolico adulto, che diventa fisico, tangibile, attraverso oggetti scenici (le opere), capaci di trasfigurarsi in altro. Siamo animali simbolici fin da cuccioli. Linguaggio, simbolizzazione e astrazione caratterizzano homo sapiens rispetto alle altre specie viventi e gli conferiscono quella capacità di plasmare il mondo e il suo habitat secondo i suoi bisogni, i suoi desideri, e anche le sue pulsioni. Il gioco simbolico viene trasmesso, verbalizzato, narrato perché sia relazionale. Attraverso la narrazione ci riconosciamo e ci identifichiamo. Homo narrans è quindi un altro modo di definire homo sapiens. Quasi a concludere che, senza finzioni, non possiamo essere creature pensanti.
Byung-Chul Han nella Crisi della narrazione (2023) sottolinea proprio come nella nostra società attuale la narrazione collettiva, capace di costruire identità nella stratificazione del tempo, sia stata sottomessa all’instant storytelling dei social media. Scambiamo contenuti e storie senza consapevolezza, senza memoria, senza rituale, che immettono un enorme rumore di fondo e che promettono verità a cui crediamo a-criticamente. Lo storytelling non è altro che la mercificazione delle nostre storie a scopo di consumo. Questo comporta che non siamo più capaci di esercitare la finzione per lasciarci andare all’immaginazione e quindi alla costruzione di possibilità. Stiamo impoverendo la nostra immaginazione e quindi la nostra capacità di trovare soluzioni, di innovare, di reagire, di sperare. Diversi studi dimostrano che lasciare i bambini da soli con un telefono o un tablet non supporta la loro crescita cognitiva. Altre ricerche pongono l’accento sulla solitudine ingenerata negli adolescenti, che immersi in mondi virtuali dei loro cellulari dalle mille applicazioni, costruiti sulla manipolazione della realtà, perfetti, felici, patinati, non esplorano le emozioni e la relazione con gli altri e cadono sopraffatti nell’incapacità di coltivare il proprio sé. Siamo reduci da fatti di cronaca dove giovanissimi compiono i più crudeli atti verso la propria famiglia o i propri figli, con disarmante distacco anaffettivo, senza un cenno di crisi di coscienza. Quali sono le loro narrazioni? Che tipo di gioco simbolico hanno conosciuto nella loro infanzia? Quale atto culturale li ha mai catturati nella finzione rappresentazionale? Quali parole sono mancate? Domande difficili a cui dare una risposta, ma che tutta la collettività dovrebbe porsi, perché una narrazione è venuta meno.
Nel primo verso della poesia Questo di Fernando Pessoa, il poeta scrive: «Dicon che fingo o mento / quanto io scrivo. No: / semplicemente sento / con l’immaginazione, / non uso il sentimento». Sentire con l’immaginazione è la forza generativa che homo sapiens manifesta entro la sua specie. Rinunciare completamente a questa capacità potrebbe alla lunga determinare un’assenza di identità e più drasticamente all’estinzione della specie, incapace di trasformarsi e incapace di guardare oltre. E una certa inquietudine assale pensando a quanta fatica l’umanità fa nel reagire ai suoi eccessi che stanno portando il Pianeta al collasso.Vorremmo tutti essere Paul Menard delle Finzioni di Borges e raccontare da capo la realtà con un altro punto di vista, riscriverla per ri-metterla al mondo. Allora, coltiviamo la finzione che nutre l’immaginazione.