Tutto ciò che è solido si disperde nell’aria. Tutto ciò che è semplice cela il più oscuro inganno. Scrive Giorgio Colli, in un passaggio della sua Filosofia dell’espressione (1969):
È forse un pathos filosofico l’attrazione verso l’enigma? Chi tenta di interpretare il mondo come un enigma è mosso da un istinto serio, ferreo, profondo, violento, quasi per il presentimento che in fondo alle cose vi sia un filo conduttore, scoperto il quale sia possibile tracciare il disegno per uscire dal labirinto della vita e, insieme, da un istinto giocoso, lieve, avido di imprevisto, dall’ebbrezza di chi toglie con meditata lentezza i veli dall’ignoto.
Omero – si racconta – morì impazzendo per non aver risolto un enigma. Non un uomo qualunque, ma il più saggio tra i saggi, il più sapiente tra i sapienti.
L’episodio è riportato nella Vita Homeri (Βίος Ὁμήρου) attribuita allo Pseudo-Plutarco, un’opera che circolava in diverse versioni già nell’antichità e che è stata più volte stampata e commentata nel Cinquecento. Secondo questa tradizione, mentre si trovava sull’isola di Ios, Omero vide arrivare dei pescatori e chiese loro se avessero fatto buona pesca. La risposta dei pescatori fu: «Quel che abbiamo preso lo abbiamo lasciato, quel che non abbiamo preso, l’abbiamo tenuto». Omero non riuscì a risolvere l’enigma e, secondo la leggenda, morì di crepacuore, adempiendo a una profezia che lo riguardava.
Ricorda Colli ne La nascita della filosofia (1975) che il documento cruciale di questo “episodio” decisivo nella storia del pensiero e nel rapporto tra enigma e ragione, si trova in un frammento di Aristotele.
«Ciò che subito desta meraviglia in questo racconto», rimarca Colli, «è il contrasto tra la futilità del contenuto dell’enigma e l’esito tragico per il suo mancato scioglimento» – il che colloca il livello agonistico su un piano al contempo umano e inumano. Un enigma nell’enigma. Tessere di un mosaico che potremmo comporre, accarezzando le sue tessere, solo dismettendo l’idea – noi, piccole parti – di dominare il tutto.
L’enigma è lì, insolubile solo per chi vorrebbe risolverlo. Decifrare, al contrario, è tentare, provare, riprovare. Accedere al mistero della complessità. Scrivere e riscrivere le forme che sempre eccentriche segnano le nostre vite. Arnold Schoenberg, in una lettera a Kandinsky, lo ribadirà:
È importante che la nostra capacità creativa riproduca enigmi in base a quelli che ci circondano, affinché la nostra anima tenti non di risolverli, ma di decifrarli. Ciò che noi otteniamo in questo modo non deve essere la soluzione, ma un metodo senza valore intrinseco che offre materiali per creare nuovi enigmi. Essi sono, infatti, il riflesso dell’inattingibile. Un riflesso imperfetto, cioè umano.
Otranto custodisce uno dei più preziosi esempi di questo «metodo senza soluzione»: opus tessellatum di oltre 600mila tessere che si estende nelle tre navate della Cattedrale di Santa Maria Annunziata, le cui scene sacre e profane originano tutte da un misterioso, enigmatico albero della vita e della conoscenza, simbolo di una sapienza che si colloca all’origine e alla fine dei tempi, ma alla quale non è più dato attingere se non per enigmi. Riflesso imperfetto, ma umano di una tensione ancora viva sotto le tessere ridotte in cenere dal mosaico del tempo.
La vita stessa sembra allora stagliarsi su un fondo enigmatico. Come in un mosaico. La conoscenza – annotava, d’altronde, Wittgestein – «scioglie nodi nel nostro pensiero, ecco perché il suo risultato deve essere tanto complicato quanto i nodi che scioglie» (Zettel, 452).