Barbarie e cura

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Che cosa è la cura? La cura non è una cosa, ma un processo di relazione: cura è prendersi cura. Prendersi: un gesto riflessivo, di chi assume su di sé una decisione, una deliberazione che consiste con un’azione. E quest’azione è – come ci racconta la radice indoeuropea della parola – un saper vedere con attenzione. Curare qualcuno, allora, è essenzialmente avere attenzione per quel singolo che ti trovi davanti. Si tratta di riconoscerlo nel suo senso proprio, e lasciare che egli emerga nel suo essere soggetto. Nell’attenzione, dunque, l’essere-davanti (che è la caratteristica propria dell’oggetto: ob-jectum) si trasforma in un essere-con, ovvero un soggetto che – proprio come il soggetto che essendo attento lo riconosce – è soggetto al suo proprio processo, alla sua propria storia, al suo proprio senso. Assumere su di sé una decisione, si diceva: assumere, dunque, una responsabilità, dove si è chiamati a rispondere a qualcuno riconosciuto come soggetto.

Che cosa è la barbarie? Lo sappiamo bene, ma ripetiamolo: è il dire che qualcuno non è in grado di essere nel linguaggio. Il barbaro è colui che emette balbettii senza senso: ma sappiamo, appunto, che è solo agli occhi imperialisti di chi dice barbaro che sono balbettii senza senso. La realtà, invece, è che quello è un linguaggio altro, non riconosciuto come tale. Un’alterità inassimilabile, e di cui dunque si nega la stessa esistenza. Nella barbarie, l’altro è degradato a pura inesistenza, un ente senza alcuna dignità, un puro oggetto. La barbarie è non riconoscere l’altro in quanto altro: dunque è il contrario della cura e dell’attenzione.

O cura o barbarie, dunque, parafrasando Rosa Luxemburg.

Ma questa è una società senza cura (tanto che sempre più angosciante è la domanda se sia una società incurabile): non ha cura dell’altro, centrata com’è sull’individuo e sulla sua produzione di sé, sulla competizione; né ha cura della natura, e dunque nemmeno degli altri a venire, quelle generazioni del non-ancora che subiranno gli effetti di questa non-cura.

Quando parliamo di cura in senso più ristretto – nel senso di cura medica –, non possiamo che inscriverla in queste coordinate. Anche in ambito medico, e dunque psichiatrico (dove, va da sé, questo dunque implica una problematicità radicale), la cura non può essere che prendersi cura. E si fatica a vederlo, questo prendersi cura. L’idea enunciata da Basaglia – ma Basaglia è un nome collettivo, quello di un movimento di persone e di pratiche che proponevano una prospettiva di liberazione – era quella di vedere il malato, e non la malattia, ovvero aver cura della persona che si ha davanti in quanto soggetto concreto, portatore di affetti e di diritti, inserito in una rete sociale: di questa soggettività realmente esistente, di questa istanza concreta, il medico deve prendersi cura, ponendosi in relazione con essa. Cura allora significa uscire dallo sguardo oggettivante, che fa del soggetto un oggetto, un mero organo da curare dopo averlo diagnosticizzato in quanto malattia; significa riabilitare il soggetto debole prendendosi cura di lui e della rete di relazioni in cui è inserito, non sradicarlo e segregarlo; significa pensare a una comunità che cura, a una comunità come luogo di ascolto, accoglimento  e possibile reinserimento.

I luoghi della cura in cui primaria sarebbe dovuta essere la dimensione del dialogo, della parola e dell’ascolto, sono diventati invece i luoghi della misurabilità, della standardizzazione, dell’oggettivazione. Uno psichiatra dall’impostazione biomedica – quella che ha egemonizzato il sapere psichiatrico dagli anni ottanta, e di fatto lo fa ancora – diceva che il problema della psichiatria è che si parla troppo col paziente. Per questi psichiatri noncuranti (e incurabili) chi soffre non è un soggetto, non ha una storia da raccontare, non ha un senso da comprendere. Chi soffre non ha niente da dire, i suoi sono balbettii che non hanno senso proprio, ed è una perdita di tempo ascoltarli e prendersene cura. C’è un corpo senza senso, davanti, bisogna solo leggere i sintomi, farne diagnosi e procedere a una terapia conseguente. La questione del senso non è una questione di cui prendersi carico, perché, semplicemente, non si pone. C’è un barbaro, davanti, lo è per natura, perché la malattia mentale ha un’origine biologica, tutt’al più c’è stato un evento traumatico a manifestarla. E’ un barbaro per natura, e per la natura non c’è cura. Invece, cura significa capire che è la vita intera il trauma, la sua storia, dove ogni elemento è intramato inestricabilmente a un altro: e per curare, occorre, prendersi in carico quella storia, quella vita, quell’esistenza, quel senso. Senza senso, non c’è cura.

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