Mi porto con me fin dalle origini il mio conosciuto non pensato.
È la mia illusione, – lo spazio vitale in cui gioco –, di una possibilità
di identificazione tra me soggetto e il mio oggetto d’amore.
Un’esperienza indicibile di un fenomeno che è estetico e estatico
allo stesso tempo.
Posso sussurrarmelo più che dirmelo: ha a che fare con la mia prima estetica,
con l’idioma della cura della madre.
È forse da lì che mi viene la disposizione a sobillare
ogni forma di vigilanza o sorveglianza,
soprattutto quella che vorrebbe controllare l’eccedenza,
che poi è la connessione con l’origine,
con tutto quanto mi precede,
quella stanza del pensiero verginale
grazie alla sincronia con la quale
mi si apre la possibilità in cui mi pare di poter catturare
qualche scampolo di infinito.
Quello spazio dove si è una cosa sola col vivente,
in primo luogo col ventre che mi ha generato,
è la prima cooperazione a cui riesco a pensare.
Da quella si dipartono i miei tentativi di una vita
e hanno tutti a che fare con la ricerca di fusionalità
con l’originario.
Non si tratta né di dedizione morale, la detesterei,
né di raccoglimento meditativo, lo rifuggirei:
è un accoglimento nel tentativo di contenere
il perturbante di ogni differenza che sfida la mia consistenza.
Una continua e difficile elaborazione del conflitto
con il me stesso che si presidia, per accogliere più differenze possibili.
Non sempre ci riesco. Quando accade mi approssimo alla cooperazione.
Quando la fusionalità ultima sarà giunta a termine,
tornando per concludersi nell’originario,
solo allora, forse, sarà cooperazione compiuta.