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I (non) salti della storia

Autore

Stefano Simeoni
Stefano Simeoni, classe 1998, è da sempre appassionato di storia e delle civiltà umane. Si è di recente laureato in Scienze Storiche con una tesi in Storia culturale sulle feste e gli intrattenimenti a Padova.

Quando mi venne proposto, da una cara amica, di scrivere del perché certi eventi segnano quei passaggi d’epoca fondamentali che ci fanno piombare d’un tratto dall’antichità al medioevo, ho affrontato una certa difficoltà nell’evidenziare quella mobilità, identificare quel balzo, che per formazione scolastica ci dà la certezza di affrontare un nuovo capitolo. Quel balzo non c’è, o meglio: se c’è, va inquadrato nel più lungo e lento scorrere del tempo e delle civiltà. Pertanto, qui si vuole cercare di mettere in discussione la chiarezza del tema che si propone in questo numero di Passion&Linguaggi, quello del salto, del balzo, introducendo, in maniera molto semplificata, alcuni concetti che fanno parte della cassetta degli attrezzi dello storico o dell’appassionato di storia.

Che sia motivo di appassionamento oppure una grande scocciatura; che sia vista come l’insieme delle testimonianze di un passato che plasma il nostro presente e la nostra coscienza culturale oppure come l’insieme delle cose fatte da gente ormai deceduta, la Storia è stata parte della nostra esperienza scolastica, dalle elementari in poi.

Partendo proprio da questa iniziazione, dal periodo delle elementari, non solo si lavora sin dai primi anni di questo percorso per fornire gli elementi di base che servono ai bambini per orientarsi nello spazio e nel tempo, elementi propedeutici all’introduzione della Storia, ma è a partire dal terzo e quarto anno che il cammino della Storia viene tangibilmente rappresentato.

Se si ha l’occasione di capitare in una classe terza, quarta o quinta, oppure si ricerca nella memoria personale i ricordi di quel periodo, molto spesso capita di vedere appesa nei muri della classe la famosa linea del tempo, nella quale sono rappresentati l’inizio e la fine di una determinata epoca e i passaggi salienti.

Resta il fatto che in questi primi anni di scolarizzazione si imprime nei giovanissimi studenti una concezione lineare della storia e, di conseguenza, quelle date che aprono e che chiudono una determinata epoca e che vengono meglio ancorate nell’individuo durante il suo intero sviluppo scolastico: dal 3000 a.C al 476 d.C. siamo nella Storia antica; tra il 476 d.C e il 1492 d.C è racchiuso il periodo chiamato Medioevo; nel 1492 si entra nella Storia moderna, che termina nel 1789 con la Rivoluzione francese, oppure nel 1815 con il Congresso di Vienna; da qui in poi, è tutta Storia contemporanea.

Ai fini didattici, è innegabile l’utilità di questa costruzione, anche perché aiuta gli studenti ad avere un’immagine concreta che negli anni verrà poi concettualizzata fino a far parte, si spera, delle nostre conoscenze generali. Benché si riconosca la funzione irrinunciabile della periodizzazione, e della sua rappresentazione lineare, questa stessa operazione nasconde certe debolezze e potrebbe, a lungo andare, creare dei concetti fuorvianti sulla storia.

Sulla questione della periodizzazione e sui concetti comunemente accettati sulla Storia, ha scritto Scipione Guarracino, che ha insegnato Metodologia della Storia all’Università di Firenze. Nel suo saggio Le età della storia. I concetti di Antico, Medievale, Moderno e Contemporaneo (Mondadori, 2001) egli non solo ha messo in luce le debolezze della periodizzazione, molto limitata ed eurocentrica, ma più di tutto ha reso noto che la suddivisione in epoche mediante l’uso di date d’inizio e fine altro non è che una convenzione, cristallizzazione del lavoro della storia accademica. Istituisce dei confini, per altro molto labili (basti vedere l’incertezza nel passaggio tra la Storia moderna e quella contemporanea, come sopra accennato) utili agli storici che si occupano di un determinato ambito, e che essendo specializzati assumono il nome di antichisti, medievisti modernisti e contemporaneisti. A sua volta, i temi che possono essere trattati in ottica storica, spesso entrando a contatto con altre discipline, sono praticamente infiniti: da ciò consegue anche il differenziarsi delle periodizzazioni.

Più che gli arcinoti eventi, è il lungo corso che permette di identificare i cambiamenti che possono definirsi più o meno strutturali all’interno della Grande Storia. Nella monumentale opera dello storico francese Fernand Braudel, Civiltà e Imperi nel Mediterraneo di Filippo II, ben conosciuta nel mondo accademico, Braudel sviluppa una ripartizione della storia a più livelli.

Egli compara la ripartizione storica con i livelli del mare – un’eccezionale metafora, dato che è proprio il mare l’elemento centrale della trattazione ­– ovvero: nella profondità il mare è calmo, e questa apparente immobilità è propria della storia del rapporto dell’uomo con l’ambiente (la geografia umana); salendo poi ad un successivo livello si innestano la storia degli scambi e delle istituzioni, che si traduce in quelle discipline storiche come la Storia politica, economica, quella militare, delle istituzioni ecc.; infine, come per la superfice del mare, che si mostra tra fasi di quiete e poi di maree, ecco che troviamo la storia più familiare, quella dei grandi eventi, delle battaglie, dei personaggi. Questa Storia più facilmente riconoscibile, quella che Braudel chiama Histoire événementielle, quella degli avvenimenti, pur essendo la più conosciuta, oltre che la più apprezzata (chi vi scrive ne subisce ancora il fascino), va comunque compresa alla luce dei fatti che da essa non dipendono ma che vengono indagati nei livelli più profondi della storia di lunga durata (altro termine usato da Braudel). E di fatto, il solo focus di questa storia evenemenziale, che gira attorno ad un solo evento o ad un personaggio carismatico, rischia di fuorviare, portando a conclusioni che spingono a sopravvalutare il singolo individuo o il ruolo del caso.

Per comprendere, quindi, i meccanismi di quella che è tutt’altro che una materia rigida, una serie di fatti incontestabili, ma è piuttosto plastica, è utile riconoscere quelli che sono gli elementi di continuità e di discontinuità all’interno di un cambiamento. Il passaggio da una fase storica all’altra comporta, sì, dei cambiamenti, ma allo stesso tempo permangono, o sopravvivono, elementi dell’epoca precedente. Così se gli umanisti del Quattrocento o del Cinquecento ammettevano una certa distanza dal periodo che li aveva preceduti, il Medioevo, essi intesero un grande cambiamento culturale (la riscoperta dei letterati e degli artisti classici, creando la contrapposizione tra l’Antichità e il Medioevo che a detta degli umanisti non aveva prodotto intellettuali o artisti) piuttosto che un cambiamento politico.

D’altro canto, è proprio la continuità, quella forza d’inerzia, come scriveva Marc Bloch, ad essere essenziale per le società stesse, consentendo loro di mantenere quei caratteri che le definiscono come tali. Certo, la continuità è scossa dai cambiamenti, ma anche questi possono essere concettualizzati in transizioni, quando avvengono lentamente (il passaggio dalla Roma imperiale al Medioevo si compie in quella transizione chiamata Tardoantichità), rivoluzioni, quando il cambiamento è più rapido e reazioni quando si avverte un comportamento collettivo di regressione ad una fase già superata. Il concetto di rivoluzione è forse il concetto più problematico, perché dà l’idea di un evento che smuove la Storia di un Paese fin dalle profondità, eppure le grandi rivoluzioni a noi esemplari, quelle del Settecento, Ottocento e Novecento contengono molteplici elementi della cultura che queste rivoluzioni intendevano cambiare.

In ultima analisi, la periodizzazione resta uno strumento importante per gli studenti, gli storici e gli appassionati di tutte le età, poiché consente di orientarsi nel tempo e collocare determinati fenomeni ad un periodo. Tuttavia non va dimenticato che queste concezioni sono arbitrarie, possono cambiare, sono spesso labili e limitate, e pertanto, se si vuol fare della Storia una componente attiva della nostra consapevolezza individuale come appartenenti a questo mondo e a questo presente, figlio anche del suo passato, occorre pur tener conto anche della lunga durata, della lentezza dei cambiamenti, dei residui che ogni epoca lascia alla successiva (il rapporto continuità- discontinuità). Di fatto, nella Storia il solo salto non basta: bisogna fare una lunga rincorsa e una corsa ancor più lunga quando si è atterrati.

BIBLIOGRAFIA

Guarracino Scipione, Le età della Storia. I concetti di Antico, Medievale, Moderno e Contemporaneo, Milano, Bruno Mondadori, 2001

Panciera Walter, Zanini Andrea, Didattica della storia. Manuale per la formazione degli insegnanti, Milano, Le Monnier Università, 2013

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