Comunque saltare

Autore

Carlo Pacher
Carlo Pacher, classe 1995, lavora per la formazione e lo sviluppo delle persone in La Sportiva. Ha conseguito una doppia laurea in Scienze Filosofiche presso gli atenei di Padova e Jena, in Germania, con una tesi dal titolo: "Intersoggettivà, costruzione, limite. Intorno alla riflessione hegeliana sul linguaggio", tema a cui ha lavorato sotto la guida dei Professori Luca Illetterati e Klaus Vieweg. Precedentemente aveva affrontato il tema della conoscenza di sé in Platone per l'elaborato di tesi triennale con il Professor Carlo Scilironi. Nell'estate 2021 ha preso parte al corso executive "Strategie e nuovi modelli di sviluppo sostenibile" presso CUOA Business School. Attivo in più realtà di volontariato sociale a livello locale, musicista per passione.

Antefatto

Il cubano Javier Sotomayor è alto 193 centimetri. Nel luglio 1993 in Spagna, a Salamanca, saltò la misura di 2,45 metri d’altezza, ad oggi l’essere umano che ha portato, saltando, il suo corpo più in alto di tutti.
Stiamo parlando di 52 centimetri.

Saltare

Come accade per la quasi totalità delle azioni umane, anche saltare ha il suo fine e il suo motivo. Che sia per togliersi da una situazione complicata in tempi rapidissimi, per raggiungere un punto più lontano, più alto o più basso, per schiacciare qualcosa sotto in nostri piedi,… se non altro il salto porta generalmente con sé una caratteristica che rende più semplice approcciarsi ad una sua analisi, ovvero quella di fissare e rendere manifesto un obiettivo, un fine che il salto si propone e che spesso si formalizza in una misura. Questo è lapalissiano negli sport, dove il salto in lungo viene misurato e reso riferimento metrico; la disciplina del salto in alto si regge sull’altezza misurata dell’asticella, da alzare fino a raggiungere il limite massimo di elevazione possibile.

Il salto, insomma, ha bisogno di premesse dalle quali far derivare quanto tecnicamente necessario per affrontarlo nei suoi due elementi fondamentali, movimento e dislivello. Come stare in volo, quanta spinta è necessaria, come curare lo stacco si basano sull’analisi preventiva del punto che si vuole raggiungere e di come si vuole atterrare. Perché saltando ci si può far male, si salta ex-post, quando tutto ciò che riguarda l’atto è chiarito ed esaminato per quanto possibile, quando la condizione fisica lo consente, quando ci sono le condizioni perché si possa eseguire il movimento. Per fare un buon salto, saltare è l’ultima cosa che si fa.

La metafora, ovvero il mondo che ci siamo costruiti

Le cose riguardo il salto si fanno interessanti nel momento in cui attraverso questa azione di movimento noi esseri simbolici ci rappresentiamo una delle metafore più ingombranti che utilizziamo per definire le nostre attese nei confronti di ciò che noi stessi dovremmo attuare nei contesti più vari, per certo più esistenziali che sportivi. Da repentino movimento del corpo, il salto diventa immagine di un brusco e rapido cambiamento, in cui il dislivello giù/su si trasforma nella dicotomia negativo/positivo1. È così che leggiamo e proiettiamo le nostre esperienze come salti di qualità, parliamo di alzare o abbassare l’asticella, sogniamo di fare finalmente il grande salto; è così che costruiamo le narrazioni circa i contesti finanziari, lavorativi, personali, di anno in anno, di salto in salto.

D’altronde, vivendo e accettando implicitamente un paradigma che ci dice “di più” e “veloce”, quale miglior immagine che un salto per rappresentare i comportamenti che noi stessi ci attendiamo, in e da ogni contesto?

Approfondiamo per un attimo alcune situazioni quotidiane che abitiamo e che sono abitate da questa metafora per comprendere anzitutto che il guaio su cui faremmo bene ad aprire gli occhi è rispetto al fatto che il mondo in cui viviamo dà per scontato il dover saltare, tanto da renderlo implicito. La malattia del nostro secolo, lo stress che sfocia in ansia e depressione fino alla concretizzazione di gesti estremi – in alcuni casi proprio salti –, non si basa forse sull’assunto che siamo tutti chiamati a fare salti sempre più alti, pena l’auto-concepirci – prima ancora che essere giudicati dagli altri – come dei falliti, degli inconcludenti, degli irrealizzati o almeno come incompleti? 

Il rischio è quello di esserci persi dentro la nostra stessa metafora, per la quale nel paradigma neoliberista all’interno della cornice capitalista, il salto non è facoltativo né sportivo, quanto essenziale e inevitabile. È un come che definisce e ci definisce il nostro stare nel mondo. Ragionando soltanto in ottica di crescita, abbiamo reso l’evitabile inevitabile, ce lo siamo autoimposti, tanto che se non riusciamo a concretizzare un salto ci sentiamo letteralmente irrealizzati – quasi fuori dal reale, come se non ne prendessimo parte. Il punto è che non tutti siamo destinati a diventare Gianmarco Tamberi.

La retorica dentro il mondo del lavoro è imperniata sulla figura del salto, del quale si parla per dire un aumento retributivo, un cambio posizione, inquadramento, il passaggio alla managerialità (“il salto manageriale”), il tutto dando per scontato che domani sarà meglio di oggi, e che meglio vorrà dire di più: responsabilità, posizione, remunerazione. La narrazione del lavoro ha detto per tanti anni un cosa che è carriera e non senso, un come che sono salti e non significati. Eppure anche oggi, che tutti vogliamo più tempo libero e più equilibrio, decidendo di rallentare o di accontentarci anche di minor guadagno, automaticamente – nel senso di come automi – la narrazione assume gli stessi toni sfociando nel “less is more” che impone di rendere manifesto, a te prima che agli altri, dove stai guadagnando un di più pur avendo meno. Più per meno, meno; meno per meno, più.

La stessa lingua dei salti viene parlata dal mondo dei media, degli investimenti, delle startup: non basta avere enormi numeri di seguaci, ma occorre averli – “farli” – in un tempo talmente breve da rappresentarci un salto da zero a migliaia se non milioni; le startup più considerate, al punto che abbiamo inventato un nome per definirle, sono dette unicorni: sono quelle aziende private che riescono a raggiungere una quotazione di mercato maggiore o uguale ad 1 miliardo di dollari pur non essendo quotate in borsa2, e che lo fanno in un tempo medio oggi stimato attorno a sette anni di attività, ma già in forte contrazione.

Il ragionamento a questo punto si può immaginare essere chiaro. Potrebbe essere esteso davvero a diversi ambiti del nostro abitare quotidiano, in un paradigma che rende competitivo anche ciò che non lo è per natura e che sta plasmando il modo in cui concepiamo noi stessi. La narrazione infatti non descrive soltanto i salti di entità terze o inanimate, ma coinvolge per estensione gli abitanti di questo panorama, fino cioè a penetrare nel rapporto del tutto intimo, originale e misterioso che è la nostra concezione di noi stessi e il nostro continuo ricercare una atuodefinizione, una via di realizzazione in questo mondo, in questo mondo raccontato così.

Ritornare alla premessa

Ma qual è il salto che realizza, e che cosa realizza?

Davanti a questa contemporaneità, per abitare questo stato in luogo in attesa di un pensiero altro e di un paradigma nuovo, ciò che possiamo portare davanti alla nostra attenzione è che la grande assente rispetto al concepirci tutti saltatori è l’analisi preliminare delle condizioni che devono generare qualsiasi salto, viste in apertura come la premessa a che il salto avvenga. Il punto è che si investe più tempo nel chiedersi e chiedere di saltare che non nel mettere a fuoco le condizioni, le richieste e gli obiettivi che ciascun salto si propone di realizzare.

“Ci si aspetta da quella persona che faccia il salto manageriale”; ma quale modello di manager abbiamo in mente, che cosa ci aspettiamo da quella persona di diverso, che nome diamo alle caratteristiche che vogliamo siano visibili perché il salto si riconosca come fatto? Movimento, dislivello, atterraggio. Vogliamo parlare del cambiamento tecnologico, che ha andamento esponenziale? Quanto stiamo investendo nel prepararci noi esseri umani a riceverlo, quanto rispetto al realizzarlo ad ogni costo, saltando sempre più oltre, sempre più velocemente? L’importante è saltare, scopriremo dove atterreremo, ché non siamo più in grado di dirlo.

E allora ed infine la questione si pone così: se investiamo tempo e risorse a dirci che dobbiamo saltare, ma nessuna a capire come costruire una scenografia di significato, senso, misura e destinazione circa quanto, dove e a che pro vogliamo saltare, ci condanniamo all’infelicità. Non suoni parola troppo grossa: felix, in latino, è l’aggettivo qualificativo che indica ciò “che porta frutto”, proprio come un albero. Quale sarà il frutto del nostro saltare, se non ci diamo un perché saltare? Perché la nostra felicità non ha a che fare con la quantità fine se stessa, ma con la pienezza. E la pienezza è questione di misura corrispondente.

Torna sempre alla mente il racconto di Paul Watzlawick: “Chiese lo sceicco al servo: “Vuoi andare da La Mecca a Medina a piedi o con il cammello?”. Rispose il servo: “Vorrei discutere se andare a La Mecca oppure no”.

NOTE

  1. https://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/S/salto.shtml
  2. https://sni.unioncamere.it/notizie/azienda-unicorno-cose-e-quali-sono-le-caratteristiche-di-questa-impresa

1 commento

  1. Grazie per l’articolo dove viene sottolineata la bellezza, la complessità, l’utilità del processo, la motivazione nello svolgere le fasi intermedie e nello stesso allenamento proprio o figurato, rispetto alle quote (proprie o figurate) raggiunte dallo stesso salto (riassunto da ” Per fare un buon salto, saltare è l’ultima cosa che si fa.” Nel mio lavoro mi viene spesso chiesto “tornerò a camminare? Riuscirò a raggiungere tale obbiettivo”. Proprio questi giorni sto rispondendo “Stai ottenendo l’obiettivo già desiderandolo, lavorando più volte al giorno,tutti giorni per sviluppare le competenze di forza, di equilibrio, di resistenza, perché ciò migliora la tua salute, il tuo benessere psicofisico, funzionale, relazionale, partecipativo qui ed ora, al di là del risultato raggiunto o meno”.
    Grazie infinite.

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