Volendo estremizzare (ma nemmeno tanto) si potrebbe sostenere che il cinema sia la forma d’arte che fa proprio del “togliere” una delle sue caratteristiche principali. Cos’altro è, infatti, l’inquadratura se non ciò che resta dopo aver tolto di mezzo tutto ciò che è visibile tranne, appunto, ciò che rimane nel mirino della macchina da presa? Simile, da questo punto di vista, allo scultore, il regista elimina porzioni di spazio che sono l’equivalente delle porzioni di materia che vengono scalpellate via dal blocco di marmo in cui solo l’immaginazione dell’artista scorge una forma e, con essa, un significato. Non è certamente questo l’unico senso che si può dare al titolo di questo breve contributo al tema del “togliere”, ma vale la pena comunque soffermarsi su un aspetto che spesso si sottovaluta, ingannati dalla presunta naturalità o oggettività dell’immagine cinefotografica, dimenticando che essa è sempre frutto di una scelta, più o meno consapevole, compiuta da un soggetto. Era ciò che intendeva probabilmente dire Pasolini quando affermava che il cinema è contemporaneamente «completamente oggettivo e completamente soggettivo». Detto questo, passo adesso a esaminare le modalità più intuitive attraverso le quali il cinema opera nella direzione del “togliere”, con particolare riferimento a quelli che sono di fatto gli elementi costitutivi dello stesso linguaggio cinematografico: il visivo e (da un certo punto in poi) il sonoro. Ad un primo sommario esame, si potrebbe sostenere che, perché vi sia cinema, è necessaria la presenza di immagini e suoni, siano essi rumori, voci o musiche. Ne consegue, quindi, che togliendo le immagini non si può più parlare di cinema. Ma cosa si intende con “togliere le immagini”? Lo schermo nero, ad esempio, che spesso, dopo lo spegnimento delle luci della sala, segna l’inizio della proiezione, può essere catalogato come una mancanza di immagini? Certamente no. È, a tutti gli effetti, l’immagine di uno schermo nero in cui la mancanza di qualsiasi tipo di figurazione ha uno scopo preciso, come quello appunto di segnalare allo spettatore che la proiezione sta per avere inizio. Questo nel più banale dei casi, perché ovviamente ci possono essere altri motivi per “togliere” ogni immagine dallo schermo, soprattutto quando invece si odono, sul nero, suoni di ogni genere. È infatti una pratica abbastanza diffusa, nel cinema contemporaneo, iniziare la narrazione con una mescolanza di conversazioni e rumori di ambiente, mentre sullo schermo non si vede nulla o, tutt’al più, iniziano a scorrere i titoli di testa. Solo in un secondo momento, ci viene mostrato il contesto in cui ciò avviene, un contesto nel quale però, in tal modo, lo spettatore è già stato inserito. È un espediente utilizzato per ammorbidire il suo transito dal “prima del film” alla totale immersione nella narrazione cinematografica. Un transito che la potente immediatezza delle immagini potrebbe rendere traumatico. In altri, più interessanti casi, la mancanza di immagini ha un valore espressivo molto più importante. È il caso ad esempio del film Fahrenheit 9/11 (2004), di Michael Moore, dedicato com’è noto alla vicenda dell’attentato al WTC di New York. Moore parte dal presupposto che le immagini dei due aerei che si schiantano sulle torri sono state probabilmente viste e riviste migliaia di volte e, come accade anche alle parole quando sono ripetute all’infinito, hanno perso la loro capacità “performativa”. Sceglie allora di rappresentare non le immagini ma i soli suoni di quella mattina: su uno schermo nero ascoltiamo quindi le voci delle persone, i rumori della città, il terribile e incongruente sibilo dell’aereo che arriva e il rumore altrettanto inaudito dello schianto. L’affidarsi alla sola componente sonora è davvero un piccolo capolavoro registico, col quale Moore dimostra — memore del Lear shakespeariano — come «l’uomo possa vedere anche senz’occhi come va il mondo». Ci sono poi i casi estremi di film la cui componente visiva è fatta interamente di un unico colore, dal famoso Blue di Derek Jarman (1993) in cui il regista inglese, ormai molto malato e reso praticamente cieco da un’infezione agli occhi, per settantasei minuti non ci mostra altro che uno schermo blu (la tonalità di blu oltremare “International Klein Blue“, creata dall’artista francese Yves Klein) su cui si odono frammenti di dialoghi e musiche. Un’altra modalità espressiva utilizzata attraverso l’eliminazione di elementi interni al dispositivo cinematografico è togliere il colore. Il bianco e nero di alcuni film recenti (C’è ancora domani, Belfast, Roma, tanto per fare qualche esempio) è ovviamente una scelta registica radicale, che solo parzialmente ha a che fare con la nostalgia e con un richiamo a vicende che appartengono ad un passato la cui memoria si associa alla mancanza del colore. Poiché però nessuno è vissuto davvero in un epoca in b/n, il b/n è solo il modo in cui si è costituito il nostro immaginario e non può essere un dato di realtà. In altri casi, togliere il colore ha il compito di sottolinearne invece la presenza, quando essa ha una importanza simbolica decisiva. E qui l’esempio principe non può che essere il cappottino rosso della bambina di Schindler’s List. Una nota di colore che ne esalta la singolarità, l’unicità che è caratteristica di ogni vita umana, a fronte dell’omologazione disumanizzante operata dalla barbarie nazista. Quanto al togliere i suoni, posto che per i primi decenni della sua vita il cinema è stato muto (ancora oggi qualcuno ritiene che quello fosse il vero cinema), un improvviso e innaturale silenzio è un classico espediente del thriller, mente un silenzio prolungato, e ancor meno naturale, spesso serve in genere a preparare lo spettatore ad un probabile colpo di scena. Ma la casistica potrebbe continuare a lungo. Infine, un brevissimo, quasi icastico ma necessario, accenno al montaggio, forse il dispositivo più squisitamente cinematografico, come teorizzava Ejzenstejn, di cui “togliere” è quasi un sinonimo. Tagliare e togliere, tagliare “è” togliere. Ne parleremo un’altra volta, la taglio qui.
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