Se il verbo “togliere” porta istintivamente con sé una connotazione negativa, probabilmente lo si deve a una sopravvalutazione che la nostra società ha finito per farci attribuire al verbo “avere”. Ma basta un minimo di attenzione per capire che, se pensiamo all’uso di “togliere” inserito nel contesto di una frase, non sempre ci troviamo davanti a un’espressione di negatività, ma, piuttosto, di ambiguità, o, meglio, di doppiezza. Infatti, se, possiamo togliere la libertà, o la gioia di vivere, o qualunque tipo di possesso, possiamo anche togliere, o asportare, un nodo tumorale, togliere o allontanare una preoccupazione, togliere o rimuovere un ostacolo. E così via. Il suo valore dipende, come spesso succede, molto più dall’intenzione del soggetto che dall’essenza dell’azione.
Del resto anche l’etimologia latina lo conferma perché toller” significava togliere, ma anche – anzi primariamente, almeno come precedenza temporale – voleva dire alzare e, quindi, in senso traslato, prendere e, conseguentemente, anche allontanare. Dunque togliere non è assolutamente una parola facile. Anzi, per quanto nell’uso comune scivoli via senza alcun tipo di inciampo, il percorso che le sta dietro è fra i più complessi, sia nella scelta, sia nelle conseguenze perché ha un significato, ma può avere anche quello opposto.
In questi tempi non è raro sentire affermazioni non prive di fondamento del tipo «La vera ricchezza non è aggiungere, ma togliere», oppure «Arriva un tempo in cui, dopo una vita passata ad aggiungere, si comincia a togliere». O, ancora, «Solamente chi ha tanto può prendersi il lusso di togliere». Ma proviamo ad approfondire la questione.
Da un certo punto di vista togliere può essere quasi considerato un sinonimo di “scegliere”. Per sostenere questa tesi ci può venire in aiuto un famoso aneddoto legato alla figura di Michelangelo. Quando, ammirati, gli chiesero «Come hai fatto a fare il David?», lui rispose «È stato semplicissimo: il David c’era già. È bastato togliere dal blocco grezzo il marmo in eccesso». Cioè si era trattato, secondo l’artista, semplicemente di osservare, di scegliere il di più, il superfluo, e gettarlo via dimenticandosene, come si fa con la spazzatura.
Anche noi, pur non realizzando alcunché di artistico, facciamo questa operazione molto spesso: a un formaggio togliamo la crosta, o da un muro la muffa, a un grappolo d’uva togliamo gli acini che ci sembrano un po’ marci, o, ancora, togliamo dalla tavola i cibi che potrebbero farci male. E così via. Il togliere, dunque, è anche un’espressione di capacità di decidere, di potere; e, infatti, se il verbo togliere non ha come soggetto agente un normale essere umano, ma uno Stato, o un potente, assume sembianze molto più spaventevoli perché in questo caso si può togliere la patente, il lavoro, la parola, la vita.
Ma restiamo sul concetto di scelta al quale noi solitamente pensiamo come a un’azione che si basa sull’aggiungere cose concrete, ricchezza, conoscenze, cultura, o altre cose ancora ai propri diversi patrimoni. E, invece, la parte probabilmente più importante nella scelta, almeno per quanto riguarda la cultura, è proprio quel togliere che viene deciso un po’ per necessità fisiche – perché la mente di nessuno è infinita e capace di assorbire conoscenze senza limiti – ma anche, e in certi casi soprattutto, per convenienze temporali, o psicologiche.
Questo succede non soltanto se abbiamo a che fare con oggetti materiali, ma anche quando ascoltiamo qualcuno, o leggiamo qualcosa. Perché, in definitiva, quasi sempre accettiamo di impadronirci soltanto delle cose, delle idee, o delle impressioni che ci vanno bene e togliamo dalla vista e dal cervello quelle che mal si adattano alle nostre convinzioni e che, magari, ci costringerebbero a una fatica suppletiva per essere accettate, o almeno analizzate. Così perdiamo irrimediabilmente processi mentali che sarebbero scattati se avessimo mantenuto e non tolto, se avessimo analizzato e non immediatamente rimosso qualcosa che non rientrava nei nostri schemi già sedimentati ed estremamente scomodi da rivedere.
Anche in questo caso il problema è quello del concetto di tempo che, da metronomo della vita naturale e quindi anche della nostra, si è sempre più trasformato diventando un qualcosa che si sforziamo di distorcere, allargandolo, o restringendolo a seconda della apparenti necessità che ci sono imposte da nuove tecnologie che hanno stravolto, con una velocità e un’accelerazione mai prima riscontrate, riti, ritmi, abitudini, consuetudini, metodi che si erano stratificati con il passare dei secoli e sono stati cancellati in pochi anni.
Adesso nel mondo del lavoro, nel nome della cosiddetta “produttività”, si è spinti continuamente verso il teorico “ottimizzare”; anche quando pensiamo, anche quando abbiamo bisogno di tempo per elaborare un ragionamento. E così si è spinti a togliere l’inutile, il superfluo per focalizzarci sull’essenziale. Ma siamo sicuri di saper individuare davvero l’inutile? Soprattutto se i tempi devono essere compressi? Ormai siamo abituati a sentir pronunciare espressioni orribili, non soltanto dal punto di vista stilistico, come «Siamo a disposizione h24», o «Siamo aperti anche la domenica e le feste comandate», oppure «Vi informiamo in tempo reale» e non ci rendiamo conto che sono frasi che testimoniano il disastro che avviene in una società che non ha più il concetto naturale di tempo e che, quindi, perde anche il contatto con il passato e la prefigurazione del futuro perché è costretta a sentire reale soltanto un presente che sembra essere l’unico segmento temporale importante per la nostra vita. Mentre, invece, in realtà continua a essere soltanto un impalpabile punto di contatto tra ciò che abbiamo fatto e ciò che speriamo di poter fare.
E tutto questo ci fa togliere – nella connotazione totalmente negativa di rimuovere – realtà incontrovertibili dalla memoria e dalla coscienza. Ci illude, visto che ci sentiamo schiavi di ritmi che ci incalzano continuamente, di non avere più quel libero arbitrio che significa indipendenza, ma anche, e soprattutto, responsabilità nelle scelte. E, quindi, anche eventuale colpa.
Insomma, visto che anche nel pensiero vale la regola che invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambia, l’attività del togliere è ben illustrata in un concetto espresso da Spinoza e poi ripreso e affinato da Hegel: «Omnis determinatio est negatio». Quindi ogni “negatio” è anche una “determinatio” e, conseguentemente, ogni volta che togliamo qualcosa operiamo una decisione.
Questo implica la necessità di un’attenzione costante, sia prima, sia dopo la scelta, tenendo ben presente che l’errore più grave è sempre quello di non scegliere, perché in quel caso ci sarà sempre qualcuno che si affretterà a decidere per noi, magari togliendo qualcosa che per noi è terribilmente importante.