Caro De Martino, ti è toccata, in un paese senza memoria e con scarso senso del futuro come quello in cui sei nato, una sorte simile a quella di Gramsci: mentre il mondo vi riconosce sempre più ampi tributi, nella cosiddetta patria si fa festa, ma non nel senso che intendevi tu…
Verrebbe voglia di stare zitto, ma non ne sono capace. Lo sforzo per comprendere le ragioni della decomposizione e i motivi per cui i rituali che consolidavano le società, come la festa, sono divenuti routine, è stato uno dei motivi della mia vita di studioso. Non mi ha mai interessato la contemplazione del passato e ho concepito l’antropologia come una cartina di tornasole in cui il passato illuminasse il presente e il presente fosse inteso come il tempo della convivenza di tutte le storie degli umani.
La festa, in particolare, perché ti ha interessato?
Non ci crederai, ma più per la sua natura tragica che per altro. La messa in scena di sé stessi con gli altri e l’allentamento o l’estrema intensificazione delle regole sono state prove di tenuta delle società, un’occasione per mettersi, appunto, alla prova. Guai a quella società o a quel gruppo che fa, invece, della festa un modo per evitare di pensare e di mettersi alla prova.
Perché dici così?
La festa è ansiogena. La sua fine è liberatoria. Eppure cerchiamo la festa, ormai senza sapere perché e per chi, o chi si sta festeggiando. Dobbiamo per lo meno cogliere l’occasione per riflettere su noi.
Riflettere, responsabilità…
A un certo punto mi sono chiesto cosa volessero quei tre da me, quelli che si erano avvicinati, ma poi hanno commentato per bocca di uno di loro, di lasciarmi stare perché non sembravo, ma ero, un poveraccio. Non volevano nulla, se non capire perché avessi voluto porre le questioni della ritualità, della fuoriuscita da sé, della fine di un intero mondo. Ho detto a quei tre, la ragione, l’ideale e la finalità, che le cose e le vicende degli umani traboccano la nostra stessa capacità di comprenderle.