Negli ultimi decenni abbiamo ritenuto normale ciò che normale non era. La crisi pandemica può essere un’occasione per affrontare le disuguaglianze e le ingiustizie sociali, cercando le vie per un’economia sostenibile e civile che ponga cura alle sorti della Terra.
In questi lunghi giorni di “fermo” volti a fronteggiare l’emergenza pandemica, avverto che il tema del lavoro emerge con grande attualità in tutte le sue contraddizioni.
Da un lato mi appare nitida e preziosa l’immagine di un lavoro che, nonostante i rischi e le fatiche, si mette a servizio del funzionamento del corpo sociale; dall’altro lato, invece, si evidenzia la forma di un lavoro che, spietato e ostinato, ha già ripreso o non ha mai smesso di produrre per non rallentare nè tantomeno fermare il motore degli affari. Un lavoro quindi che accelera per un ritorno alla “normalità”, senza di fatto (voler) accorgersi che sono proprio alcune forme di questa normalità ad averci condotto all’emergenza che oggi stiamo vivendo e a causare la crisi climatica e ambientale in cui siamo entrati da tempo.
Alla prima immagine, appartengono innanzitutto gli operatori sanitari – i medici e gli infermieri – in questi giorni presentati più come “eroi” che come persone normali, che fanno al meglio il proprio mestiere con professionalità e dedizione, in turni massacranti e molto spesso in carenza di idonei dispositivi di sicurezza. Ma penso anche ad altri lavoratori e ad altre lavoratrici che operano nel settore sanitario. Permettetemi di confidarvi la commozione provata dinanzi ad un video che mostrava il lungo e caloroso applauso di alcune infermiere fatto di sorpresa al personale delle pulizie di un ospedale. È in queste occasioni di grandi difficoltà che abbiamo l’opportunità di accorgerci dell’importanza e della dignità di ogni lavoro, purchè fatto con cura, al di là dei ruoli e dei colori dei camici.
In questa immagine del lavoro, come non considerare anche i commessi nei supermercati, i netturbini, gli autisti, i fattorini, i tranvieri… tutti coloro che, mentre la maggior parte delle persone rimane in casa a lavorare anche da remoto, ogni giorno si recano al loro posto di lavoro per consentire il dispiegarsi delle funzioni di primaria importanza. Il mio pensiero non può inoltre non includere in questa categoria anche gli operatori e le operatrci, i volontari e le volontarie impegnati nei servizi di cura e nelle realtà comunitarie. Conosco bene e da vicino l’enorme sacrificio, spesso con competenza e responsabilità, per la tutela del diritto di salute anche delle persone più fragili perchè – non mi stancherò mai di ribadirlo – se è vero che i mali colpiscono tutti, in questo mondo, a farne le spese sono tuttavia sempre i più deboli, i cosiddetti “scarti”, come li definisce Papa Francesco, ossia coloro che vengono abbandonati come resti alle periferie della città e della società.
Vi è poi una seconda immagine, ed è questa, che sfoca e turba la prima. Mi riferisco a tutte quelle aziende e a quei processi produttivi che, pur in tempi di gravissima emergenza sanitaria, mettono il profitto dinanzi alla vita stessa. Abbagliati dalla retorica della produttività, guardano solo ai propri interessi privati, ripresentando così tale e quale un modello economico che invece è causa del problema e andrebbe quindi radicalmente ripensato e convertito. Non possiamo continuare ad essere ciechi, non possiamo ostinarci a non vedere quanto questa emergenza, profonda e globale, ci sta rivelando. Non cogliere tutto ciò, sarebbe un’enorme opportunità mancata di cui a farne le spese saranno soprattutto le generazioni future. Oggi quindi il “fermo” lavorativo e produttivo è da considerare innanzitutto una forma altissima di rispetto nei confronti di se stessi e della collettività intera – poichè il distanziamento sociale è la sola risposta utile che abbiamo a disposizione per fronteggiare il propagarsi del virus; ma è anche uno straordinario tempo, violentemente concessoci, per iniziare ad impostare un futuro prossimo dove abbandonare alcune economie non più sostenibili e metterne in cantiere di nuove.
Nella Milano dove vivo, proprio in quei nuovi grattacieli (senza finestre), simbolo del cuore pulsante dello sviluppo economico e finanziario del nostro Paese, dove hanno sede assicurazioni e banche, i dipendenti continuano tutt’oggi a recarsi al lavoro, senza possibilità alcuna di sottrarsi, se non andando incontro a infelici ripercussioni. Non sono poche le attività produttive che hanno ricevuto incomprensibilmente dei provvedimenti di deroga al decreto governativo del 23 marzo che, a un mese esatto dall’inizio dell’emergenza, ha chiuso tutte le attività ad eccezione di quelle che producono beni e servizi essenziali. Alcuni settori quindi, pur non rientrando nella categoria delle prime necessità, hanno proceduto senza sosta. L’industria bellica ne è forse l’esempio più riprovevole e lampante poichè ha continuato a fornire i suoi “strumenti di morte”, proprio in un delicatissimo momento in cui molte cittadine e molti cittadini lottavano strenuamente per la vita.
Non siamo in guerra, ma in cura, ci ha ricordato bene qualcuno. E se vogliamo davvero curarci, è tempo di cogliere con urgenza questo momento. Mi chiedo cosa accadrà dal 4 maggio in poi, data dalla quale, sembra, inizierà una seconda fase che porterà alla ripresa progressiva delle attività produttive. Torneremo davvero come “prima”, pensando, come dice Papa Francesco, di essere sani in un mondo malato? Dovremmo approfittare di questa crisi, che reputo epocale, per donarci un momento di riflessione, per non temere di rallentare – e perchè no? – anche di fermarci. Là dove l’arresto significhi ripensamento. Un ripensamento radicale e profondo per iniziare ad impostare un’economia sostenibile e civile fondata su un lavoro sano per i lavoratori e per l’ambiente. È tempo dunque di cambiare rotta, con coraggio e urgenza, ponendo cura, come ci esorta l’enciclica Laudato si’, alle sorti della Terra, della natura, degli esseri umani e di tutto il vivente.
Don Virginio Colmegna (Saronno VA, 1945) è un sacerdote della diocesi di Milano, dal 2002 presidente della Fondazione Casa della carità “Angelo Abriani”, ente voluto dall’allora Arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini, come luogo di accoglienza e ospitalità per persone in difficoltà e che fosse anche centro di elaborazione culturale, di formazione e di studio. Si è sempre occupato di poveri ed emarginati, siano essi donne o uomini, italiani o stranieri, tra cui persone senza fissa dimora, minori disagiati, sofferenti psichici, immigrati, profughi, rom. Ha fondato diverse cooperative sociali e comunità di accoglienza e ha sempre operato per affermare i diritti di cittadinanza dei più deboli e per diffondere la cultura dell’accoglienza, nella convinzione che chi è in difficoltà non vada aiutato con l’assistenzialismo, ma con promozione di diritti, dignità, percorsi di reinserimento sociale e lavorativo.