«C’era una trappola nell’universalismo. Esso non si è fatto strada come un’ideologia libera, ma è stato propagato da coloro che detenevano il potere economico e politico nel sistema-mondo del capitalismo storico. L’universalismo è stato offerto al mondo come un dono del potente al debole. Timeo Danaos et dona ferentes! Il dono stesso nascondeva in sé il razzismo; perché il dono dava al ricevente due possibili scelte: accettarlo, e con ciò riconoscersi più in basso nella gerarchia della saggezza acquisita; rifiutarlo, e con ciò privarsi delle armi che potevano rovesciare la situazione di un potere reale diseguale» (I. Wallerstein, Il capitalismo storico, Einaudi, Torino 1983, p.69).
Quando l’altro entra nella storia è sotto le forche caudine del padrone. Venerdì si chiama Venerdì perché Robinson lo ha chiamato così. Il suo vero nome non lo conosciamo. Di più, l’unica lingua di comunicazione tra i due è, of course, l’inglese. E ancora, quando Robinson dice il suo nome a Venerdì, non è Robinson, ma Master, Padrone. Voltaire raccontò nel suo Candide del nero del Surinam: «…è l’uso. Come abito ci vien dato un paio di pantaloni di tela due volte l’anno. Quando lavoriamo negli zuccherifici, se la macina ci prende un dito ci tagliano la mano, e se ci viene voglia di scappare ci tagliano una gamba: mi sono capitate entrambe le cose. E a questo prezzo che voi altri in Europa mangiate zucchero. Eppure, quando mia madre mi vendette sulla costa di Guinea per dieci scudi patagoni, mi diceva: “Figlio mio caro, benedici i nostri feticci, adorali sempre, ti faranno vivere felice, hai l’onore di essere schiavo dei nostri signori, i bianchi, e in questo modo fai la fortuna di tuo padre e tua madre”. Ahimé! Non so se ho fatto la loro fortuna, ma loro non hanno certo fatto la mia. I cani, le scimmie e i pappagalli sono mille volte meno disgraziati di noi. I feticci olandesi che mi hanno convertito mi ripetono tutte le domeniche che siamo tutti cugini germani. Ora, ammetterete che non si possono trattare i propri parenti in maniera più orribile» (Voltaire, Candido. A cura di G. Iotti, Einaudi, Torino 2006, p. 70).
Degli schiavi non si sa quasi nulla. Eppure il rapporto ONU parla di circa 50 milioni (50 milioni) nel mondo di donne, bambini, uomini vittime di lavori forzati o di matrimoni forzati. Nell’epoca dell’ideologia delle ideologie e della fine della storia, la sopraffazione del silenzio è assicurata dal dominio della curiosità superflua.
Adriano Prosperi ha ricordato la storia dell’uomo europeo che va da Colombo a Robinson come storia della trasformazione dell’altro in una copia di sé stesso. «Toccherà poi a tutti i Venerdì del mondo moderno cercare di risalire alla cultura perduta e riscoprirne i valori cancellati per liberare se stessi e il loro popolo da una servitù non solo politica ma culturale: da Gandhi a Malcom X ai figli di seconda e terza generazione degli immigrati indiani in Inghilterra e di quelli algerini in Francia, ecco dove si aggrovigliano i fili della storia e diventano problemi del presente» (A. Prosperi, Identità. L’altra faccia della storia, Laterza, Roma-Bari 2016, p. 32).
I due grandi movimenti che hanno posto la questione dell’eguaglianza nei termini del rifiuto della colonizzazione e del riconoscimento della diversità sono stati quello dei neri e quello femminista. Essi, come le rivoluzioni moderne, ci hanno insegnato che l’improbabile è sempre possibile e che è un errore giustificare la storia trasformando la sua irreversibilità in ineluttabilità. Se infatti così fosse non potremmo aspirare a nessun futuro possibile di liberazione. Resteremmo fermi, occidentalisti e globalizzati, a ripetere in modo sicuro, arrogante e stolto, il detto thatcheriano: “There is no alternative”. Ha scritto Ernesto de Martino a proposito di coloro che vivevano oltre Eboli, là dove Cristo non si era fermato: «Se la democrazia borghese ha permesso a me di non essere come loro, ma di nutrirmi e di vestirmi relativamente a mio agio, e di fruire delle libertà costituzionali, questo ha un’importanza trascurabile: perché non si tratta di me, del sordido me gonfio di orgoglio, ma del me concretamente vivente, che insieme a tutti nella storia sta e insieme a tutti nella storia cade… provo vergogna di aver io consentito che questa concessione immonda mi fosse fatta, di aver lasciato per lungo tempo che la società esercitasse su di me tutte le sue arti per rendermi ‘libero’ a questo prezzo, e di aver tanto poco visto l’inganno da mostrare persino di gradirlo» (E. de Martino, Note lucane in Oltre Eboli. Tre saggi. Edizionie/o, Roma 2021, pp. 79-80). Provare vergogna per la propria cultura e per la propria storia, che ancora si nutre ipocritamente e nascostamente della schiavitù, potrebbe essere almeno una buona terapia critica che ci permette di immaginare un futuro fatto concretamente e realmente di donne libere e di uomini liberi. In quel meraviglioso film Di De Sica e Zavattini, Miracolo a Milano, i poveri cavalcando le scope andarono a cercare un mondo in cui «buongiorno vuol dire veramente buongiorno». Noi siamo ancora alla ricerca di un mondo in cui “essere liberi vuol dire veramente essere liberi”.