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Liberi di essere liberi

Autore

Aurora Martinelli
Aurora Martinelli, nata nel 1998, dopo gli studi classici ha conseguito una Laurea Triennale in Storia presso l’Università degli Studi di Padova con una tesi dal titolo “La lunga liberazione. La questione della specificità femminile nelle esperienze post Olocausto” con la professoressa Enrica Asquer. Contenta, ma non abbastanza, ha conseguito un'altra laurea in Graphic Design presso la LABA di Rovereto con una tesi di progetto dal titolo "Sfumature. Interazione tra podcast e comunicazione visiva in un progetto di divulgazione storica" col prof. Matteo Carboni. Mossa dal desiderio di unire l'anima storica e quella grafica e lavorare nel campo della comunicazione culturale, attualmente si muove tra Trento, dove collabora con la Fondazione Trentina Alcide De Gasperi e con lo Studio di Davide Dorigatti, e Bologna, dove lavora per Un Altro Studio.

Il 2 dicembre ricorre la giornata mondiale per l’abolizione della schiavitù. Quel giorno, nel 1949, l’ONU approvava una Convenzione per la repressione del traffico di persone e dello sfruttamento della prostituzione. La sera in cui ho scoperto il motivo per cui questa giornata ricorre proprio il 2 dicembre, ero a cena con un’amica che ha viaggiato più volte in Thailandia. Mi raccontava di essersi sentita a disagio nel percepire quanto l’economia di quel Paese ruotasse attorno al turismo sessuale. Stando alla sua esperienza, questo tipo di turismo sarebbe piuttosto normalizzato, ma il confine tra lavoro e sfruttamento non sempre così evidente. Al tempo stesso, tuttavia, sono le donne stesse che talvolta riescono a sfruttare il sistema a proprio favore, chiedendo ai turisti dei prezzi decisamente vantaggiosi – per sé stesse, non per loro. Abbiamo lasciato cadere il discorso, consapevoli di non avere, né io né lei, i mezzi per fare un’analisi accurata di un tema così complesso e delicato. Questo input, però, ha aperto delle riflessioni più ampie. Certi tipi di sfruttamento e schiavitù, i nostri occhi occidentali tendono a non vederle. Pur sapendo che esistono, sono lontane da noi e finché non ci riguardano direttamente non ci toccano. Esistono però delle forme di sottomissione che non vediamo nonostante si trovino vicino a noi, tra di noi, o addirittura dentro di noi. Forse non siamo consapevoli a sufficienza da accorgercene, oppure non le vediamo perché le chiamiamo in altri modi. Perché “schiavitù” è una parola forte e nessuno di noi la utilizzerebbe volentieri per descrivere la propria condizione. Già “dipendenza”, non meno pesante, è però forse più comprensibile, più accettabile, in qualche modo. Tutti accettiamo, anche ironicamente, di essere dipendenti dal telefono, dal fumo, dal caffè, da un’abitudine più o meno sana che scandisce le nostre giornate. Una cosa senza la quale daremmo di matto. Una cosa di cui non riusciamo a liberarci, pur quando consapevoli dei danni che comporta. Forse sta proprio qui il confine tra schiavitù e dipendenza: nella dipendenza, la libertà non è sempre percepita come l’alternativa migliore, come l’opposto, perché ciò da cui si dipende apparentemente porta più benefici. Anche se, a ben guardare, l’opposto della schiavitù non è una libertà generica, ma la libertà di scegliere. La libertà può tornare in ogni momento ad essere sacrificata, consapevolmente o meno, in nome di insidie, di idoli o illusioni che si rivelano catene più o meno evidenti, ma finché la possibilità di scegliere viene tutelata, resta forse tutelato anche uno spazio intoccabile di libertà. 
Ogni volta che scegli tu scegli / il tipo di schiavo / che non sarai.
[Lo Stato Sociale, Niente di speciale]

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