Mentre scrivo questa nota apprendo della morte dello scrittore e filosofo Enrique Dussel che con il suo saggio “Filosofia della Liberazione” assieme a “Pelle Nera e Maschere Bianche”, un testo di Franz Fanon sulla decolonizzazione, costituisce il mio riferimento teorico pratico in quattro decenni di vita vissuta da forestiero tra “campesinos andinos” e Indios amazzonici ed ora tra migranti di svariate etnie sulla via Domiziana, a Castel Volturno, vicino Napoli, uno dei territori più africanizzati d’Europa.
Sottomissione e ribellione degli Indios
I termini resistenza e resa li ho presi in prestito dal titolo di una pubblicazione di scritti dalla prigione di Dieter Bonheffer, il teologo luterano tedesco che si oppose al nazismo e che fu impiccato nel lager di Flossenbürg. Li propongo non come narrazione di fatti compiuti e definitivi, ma evocando tempi di ribellione e sottomissione che si alternano dialetticamente nella vita dei popoli indigeni amazzonici attraverso secoli di colonialismo con la loro sequela di oppressione e sfruttamento.
Quando l’altro è indigeno generalmente viene visto come nativo, aborigeno, autoctono, selvaggio, primitivo ed altro, secondo la precomprensione di chi lo osserva.
Chi ha avuto l’occasione di avvicinarle o di vivere in comunità amazzoniche di diverse nazioni (etnie) sa che esse si auto-comprendono e si definiscono come gente, popolo, persone, umani, ashaninka, nahua, shipibo, ecc. Per quasi 40 anni ho realizzato costanti viaggi, a volte estenuanti, a volte esaltanti, in piroga, canoa, motoscafi, barche, jeep e cavalli, lungo sentieri, affluenti e sub affluenti del Rio delle Amazzoni. Qualche tempo fa leggevo su una rivista [La Repubblica-Donne 3.5.2003] alcune cose al riguardo, e appuntai su un block notes alcune considerazioni che condividevo: «Se dormi ai tropici, con altre venti persone, in una piccola stanza senza finestre, piena di zanzare ed altri insetti, senza neppure poterti muovere per scacciarli, sai bene come vive quella gente. Se uno non dorme in quel modo, se non vive con loro, non può saperlo. Noi occidentali tendiamo a dimenticare che la vita come la intendiamo non è la vita di tutti, ma solo di una piccola fetta dell’umanità. La vita sul nostro pianeta è molto dura, insicura, piena di timori e di pericoli. E gli autori contemporanei dei paesi sviluppati hanno poco a che fare con la vita di cui parlo io con questa gente».
L’estrattivismo forestale e la distruzione della cultura e delle comunità indigene
Il Global Slavery Index (l’indice della schiavitù globale) del 2018 riporta che in Perù sarebbero ben 80.000 le persone che vivono in condizioni di schiavitù. Certamente in questo caso si parla di schiavitù in senso stretto. Personalmente penso sia complicato stabilire cifre quando facciamo riferimento a comunità indigene che vivono nel loro territorio, aggredite dai bianchi colonizzatori, affamati di risorse naturali, considerate terra di nessuno.
Attraverso alcuni capi villaggi e dirigenti di organizzazioni indigene ho avuto modo di conoscere sul campo forme di oppressione e di schiavitù generate da sedicenti impresari capitalisti e politici da strapazzo che fanno dell’estrattivismo forestale la fonte del loro arricchimento. Uno schema che si ripete ciclicamente. Parliamo dei madereros, responsabili dell’abbattimento di milioni di alberi, che alimentano il mercato del legname pregiato, e dei petroleros, che perforano nel bosco profondo in cerca di petrolio e quando lo incontrano distruggono vaste estensioni di territorio e inquinano i fiumi e la vita attorno ai pozzi. Per non dire delle imprese che hanno il loro business nel settore delle estrazioni di oro alluvionale. Per un tempo breve ho vissuto sullo stesso fiume dove operava una di queste aziende. Venni a conoscenza che per ottenere circa 10 grammi d’oro occorre dragare una tonnellata di terra ed usare enormi quantità d’acqua e soprattutto tanto mercurio.
Il procedimento per conquistare il consenso degli indigeni è quasi sempre lo stesso: intermediari bianchi o meticci si guadagnano la fiducia dei capi villaggio e dei cosiddetti comuneros con dollari sonanti e regalando viaggi in città; li comprano con alimenti, vestiti e giornate di lavoro, peraltro mal pagate. E il gioco è fatto. Dal 2001 al 2016, anno del mio rientro quasi definitivo in Italia, l’Amazzonia peruviana ha perso 19742 chilometri quadrati di foresta all’anno. Non parliamo poi dell’avanzata della frontiera agricola delle monocolture come la soia per milioni di capi di bestiame. Da ultimo il mercato del narcotraffico specializzato in produzione di cocaina. In uno dei villaggi tra Perù e Brasile ogni settimana vedevo passare un gruppo di giovani indigeni che caricavano un generatore di corrente e i fari per illuminare una pista clandestina di atterraggio dove, a notte avanzata, atterrava un aereo modello Chessna per caricare 500 kg di pasta basica che altri giovani indigeni trasportavano in pesanti zaini.
Gli Indios sono teoricamente proprietari di migliaia di ettari di foresta, potenzialmente ricchi, vivono di caccia, pesca e manioca. Ma non c’è un metro di foresta che sfugga all’ingordigia del mercato, figlio di un modello economico ultraliberale, dogmatico e ottuso.
Querida Amazonia: il grido della terra e il grido dei poveri
È così che la distruzione della foresta va di pari passo con la sottomissione e distruzione della cultura e delle comunità indigene. Molte di queste reagiscono internandosi in zone forestali un tempo inaccessibili, altre assimilandosi a non indigeni nelle periferie delle città più vicine. Altre ancora, finalmente, costruendo organizzazioni di lotta pacifica, non violenta, e testarda, per difendere i loro diritti di sopravvivenza e di riconoscimento come nazioni dentro una patria comune. Un caposaldo di questa resistenza indigena è la C.O.I.C.A (Coordinadora de las Organizaciones Indígenas de la Cuenca Amazónica) il cui slogan recita “Amazonia Viva, humanidad segura”.
La narrazione coloniale e neo coloniale che descrive i popoli indigeni come docili ed incapaci di resistere all’oppressione ed alle lusinghe della modernità capitalista è smentita costantemente dalla storia reale.
All’inizio degli anni ’80, quando ero appena arrivato in Perù, assistemmo a una svolta elettorale che mise fine alla rivoluzione socialista portata avanti da un generale dell’esercito, Juan Velasco Alvarado; la prima misura del suo successore, Belaunde Terry, fu quella di ingabbiare la legge sui diritti delle comunità campesine e native faticosamente conquistata grazie a decenni di lotta popolare contro i latifondisti e le multinazionali legati all’economia estrattivista. Una forma di resistenza da parte della cultura dominante contro le conquiste e le rivendicazioni delle società indigene. La più recente è avvenuta l’8 agosto del 2023 durante il vertice regionale sull’Amazzonia a Belem in Brasile, i cui risultati tuttavia sono stati piuttosto deludenti.
Si potrebbe dire al riguardo che la storia di resistenza e resa da entrambe le parti, oppressori ed oppressi, non finisce mai con la resa definitiva di una delle parti.
Ho visitato per decine di anni comunità contadine e native, alcune ancora pre-capitaliste, parlando di un certo Gesù Cristo liberatore ed esaltando come conquista di libertà dei popoli indigeni la firma dell’accordo proposto dall’O.I.T. (Organizaciòn Internacional del trabajo) del 1991, ratificato da altri 27 paesi nel 2014.
Oggi il mio riferimento è l’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per la regione Pan–Amazzonica. Lì ho ritrovato il grido della terra e il grido dei poveri che segna una rottura epistemologica nella riflessione sui popoli indigeni e un’evangelizzazione non colonialista: “L’Amazzonia oggi è tuttavia una bellezza ferita e deformata, un luogo di dolore e violenza” [Querida Amazonia. Esortazione apostolica post sinodale, cap. 1, 10].