Sono le 9.55 del mattino, riunione con il team marketing. Squilla il telefono. In azienda non si può, anzi non si potrebbe, utilizzare il telefono aziendale. La regola viene infranta e dall’altra parte una voce fin troppo empatica chiede le generalità.
“Buongiorno sono l’infermiera del Servizio Screening dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari. Parlo con la Signora X?”
“Sì, sono io”
“Mi può dire la sua data di nascita?”
Iniziano così i minuti più difficili per la vita di una persona. E si pensa: è toccato proprio a me. Iniziano i giorni più difficili da affrontare e si diventa schiavi di un pensiero costante, fisso, martellante, che diventa il principale compagno delle giornate.
Nastri rosa, nastri rossi, nastri neri. Ogni giorno è la giornata mondiale di qualcosa che diventa tale in quanto in un modo o nell’altro la schiavitù ci porta a fare i conti con la vita e la sua finitudine.
Anche della vita si diventa schiavi, si dipende. Queste occasioni portano dolore, sofferenza, solitudine e riflessione, perché su questi argomenti non possiamo smettere di parlare, dialogare, confrontarci e trovare la via per uscire da uno stato di schiavismo, mentale o fisico.
Ci sono molti modi per intendere la schiavitù e potremmo fare molti esempi, ma forse uno dei più taglienti è quello in cui una parte di noi stessi, del nostro stesso corpo, si dispone a tenere sotto scacco tutte le altre, a partire dalla mente, che ne rimane come sottomessa. Il pensiero, che ha le caratteristiche di un ospite ingrato, si fa avanti minaccioso e ha una caratteristica singolare: lo abbiamo prodotto noi stessi e non rispetta la regola principale del domandare. Da ospite diventa padrone. Ci si può sottrarre a una simile dipendenza solo piegando e sottomettendo con la forza della vita l’intrusione. La schiavitù, per certi versi, è molto vicina al concetto di dipendenza che, in ambito psicologico viene intesa come una modalità relazionale in cui una persona si rivolge continuamente ad altre persone per essere aiutata e sostenuta. Freud parla molto di questo aspetto osservando i bambini che adottano una sottomissione educativa per paura di perdere l’amore dei genitori. Freud come Bowlby però, hanno evidenziato le conseguenze dannose dell’interrompere lo stato di dipendenza infantile, in quanto ognuno di noi, per sperimentare autonomia e libertà ha bisogno di imparare bene la modalità relazionale della dipendenza.
In che modo quindi una dipendenza può diventare dannosa? È probabile che ciò accada quando chi dipende rinuncia alle risorse di cui dispone per rivoltarsi, ovvero per dire di no. Non esiste alcun potere che possa neutralizzare del tutto la forza vitale presente in una vita, soprattutto se quella vita può avvalersi della consapevolezza di essere importante almeno per un altra/o.
Lo sgomento della schiavitù come dipendenza nasce soprattutto dal senso di sopraffazione che non consente di accorgersi delle risorse disponibili che ognuno di noi possiede, come un kit di salvataggio, e che continuiamo a ricercare per tutta la nostra esistenza. Ogni liberazione inizia prima di tutto da una buona elaborazione del conflitto intrapsichico con le parti di sé che tendono alla rinuncia e al silenzio.
La dipendenza, questo aspetto fondamentale nella nostra vita, può incorrere in una vera e propria schiavitù che ha caratteristiche manipolatorie con una valenza negativa, e sono quelle condotte messe in atto allo scopo di controllare e manovrare gli altri per raggiungere i propri scopi oppure per circuire una persona che, a quel punto, adotta un atteggiamento di sottomissione, una sorta di relazione tra vittima e carnefice.
Una dinamica simile può riguardare la sottomissione di una parte di noi e del nostro mondo interno ad un’altra parte che prende alla gola. Ma quella parte che vorrebbe divenire dominatrice è a sua volta dipendente, perché non c’è schiavitù senza collusione e rassegnazione.
La vera schiavitù, quindi, inizia, forse, quando rinunciamo al senso del possibile.