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Silenzio a teatro

Autore

Roberto Scarpa
Roberto Scarpa, attore, scrittore e organizzatore. Ha ideato Prima del teatro: scuola europea per l’arte dell’attore. Ha pubblicato, oltre a vari saggi teatrali, Il coraggio di un sogno italiano (Scienza Express, 2013); L’uomo che andava a teatro. Storia fantastica di uno spettatore (Moretti & Vitali, 2009); Non perdo nemmeno se mi battono. Per una teoria anarchica del combattimento (con Antonio Di Ciolo; Il Campano, 2019); Non tutto qui (Nicolodi, 2004); Il viaggio teatrale di Andrea Camilleri (in Il quadro delle meraviglie, Sellerio 2015); Nenè Camilleri sugno (in Granteatro Camilleri, AA.VV., Sellerio, 2015). Ha curato la pubblicazione di due volumi di Andrea Camilleri: Le parole raccontate. Piccolo Dizionario dei termini teatrali (Rizzoli 2001) e L’ombrello di Noè (Rizzoli 2002, ristampa 2013). I suoi ultimi lavori teatrali sono: Sogni d’oro. La favola vera di Adriano Olivetti; Non muoio neanche se mi ammazzano! Giovannino Guareschi e la storia degli Internati Militari Italiani (con Luca Biagiotti) e Quando sarò un uomo. La lanterna segreta di Robert Louis Stevenson. Nel 1991 la Guildhall School of Music and Drama di Londra gli ha conferito la Honorary Fellowship.
  1. Due episodi di silenzio

Robert Schumann, il celebre musicista, si svegliò quel giorno di buonumore. Non gli accadeva spesso. Così, approfittando della bella mattinata primaverile, decise di invitare una giovane donna di cui era innamorato a fare una gita in barca sul Reno. Trascorsero due ore insieme e Schumann per tutto quel tempo non proferì parola. Quando arrivò il momento dei saluti sembra che le abbia detto soddisfatto: “Però, come ci siamo ben compresi oggi!”

Noi sorridiamo, ma in quella frase non c’era nessun intento umoristico. Schumann era del tutto serio e perfettamente convinto di quel che aveva detto. Di ciò che pensò invece la sfortunata giovane non sappiamo niente. 

Evidentemente Schumann aveva bisogno di silenzio, forse proprio per conservare il buonumore. Inoltre, sicuramente era un buon lettore dei sonetti di Shakespeare e quindi ricordava il verso che dice: … udir con gli occhi è finezza d’amore…

Del resto, il silenzio, oltre a essere eloquente, a volte è anche necessario. In certi casi può addirittura salvare la vita.

Le persone che sono tornate dai campi di concentramento non sono mai state in grado di parlarne… Mi chiamo Mangel. Sono ebreo. Forse questo, inconsciamente, ha contribuito alla mia scelta del silenzio.

A parlare così è stato Marcel Mangel. Marcel era nato nel 1923 a Strasburgo. Aveva partecipato alla Resistenza fin dal 1942 e si era segnalato per aver compiuto azioni particolarmente pericolose e di enorme valore, fra cui salvare dalla deportazione dei gruppi di bambini ebrei. Questi bambini erano ospiti in un orfanotrofio francese perché i genitori erano stati deportati dai nazisti e lui, fingendo di accompagnarli a fare delle scampagnate nei boschi, riuscì per ben tre volte nell’impresa di fargli passare il confine con la Svizzera portandoli così in salvo. Eludere la sorveglianza nazista non era affatto semplice. Le pattuglie erano sempre in giro ed era quindi necessario che nessun rumore le potesse allertare. Marcel ebbe un’idea. Per tenere buoni quei bambini durante il lungo tragitto usò le sue innate doti mimiche. Fece il mimo per tenerli in silenzio e salvare loro la vita

Marcel Mangel nel frattempo aveva cambiato nome. Sui falsi documenti che gli consentirono di evitare la deportazione aveva fatto scrivere, in onore di un generale della Rivoluzione francese, il cognome Marceau. Era così diventato Marcel Marceau. 

A guerra finita Marcel Marceau scelse il silenzio come forma d’arte e diventò il più grande mimo del ‘900. 

Fino al 2001, pochi anni prima della sua morte, Marcel Marceau restò fedele alla sua scelta e non parlò mai della sua partecipazione alla Resistenza. Ne parlò soltanto quando fu praticamente costretto a farlo.


2. Silenzio e ascolto

Il silenzio però è anche un fenomeno complesso che può dipendere da infiniti motivi e assumere significati diversissimi. Per fare alcuni esempi: c’è il silenzio ascetico che chiede Ludwig Wittgenstein nella celebre frase che chiude il Tractatus logico-philosophicus: “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”; ma c’è anche il silenzio deprecabile e colluso dei complici della mafia o delle altre organizzazioni criminali. C’è il silenzio dell’ignavia, ben descritto da Martin Luther King che affermò di non aver paura del clamore chiassoso dei maligni ma del silenzio degli onesti. C’è il silenzio rassegnato che talvolta opponiamo come unica risposta logica alla stupidità. Il silenzio dissimulatorio che Polonio suggerisce al figlio Laerte per aver successo in società dicendogli: “Non dar voce ai tuoi pensieri”. Il silenzio cauto, di cui purtroppo raramente siamo capaci, che ci ricorda che è meglio tacere e passare per idioti piuttosto che parlare e dissipare ogni dubbio. C’è il silenzio più grande di tutti, quello che ci opprime davanti alla morte di qualcuno che amiamo. Un silenzio di cui la grande attrice brechtiana Helene Weigel, nel ruolo di Madre Coraggio, dette un’interpretazione indimenticabile reagendo con un urlo muto alla notizia della morte di uno dei figli. E infine c’è il silenzio definitivo, quello espresso da Amleto in punto di morte quando dice all’amico Orazio: Il resto è silenzio.

Insomma, in molti casi il silenzio è necessario. E infatti lo usiamo spesso per legittima difesa. E come abbiamo visto può salvarci la vita. Motivo per cui dobbiamo imparare a farlo, proprio come ha fatto per tutta la sua esistenza Marcel Marceau mostrandoci con la sua arte tutta la tenerezza e lo splendore del vivere. 

Imparare a tacere però è tutt’altro che facile perché, se si eccettuano i pochi casi che ho ricordato e le poche scuole di mimo esistenti, oggi chi è che insegna a tacere? In nessuna Università, che io sappia, si tengono corsi di Silenzio. Invece sarebbe una materia interessantissima da proporre ai nostri giovani. 

Potremmo fargliela studiare cominciando proprio con l’esempio del teatro. Perché è un fatto che il teatro è capace di insegnare a far silenzio. 

Il silenzio teatrale è di un tipo particolare perché ciò che si chiede è un silenzio attivo. 

Per quanto riguarda il silenzio dell’attore è sufficiente ricordare i giustamente celebri ed eloquentissimi silenzi di Eduardo. 

Ma il teatro è particolarmente colmo di richieste per il silenzio che impone allo spettatore. Il teatro, infatti, allo spettatore chiede un silenzio colmo di aiuto immaginativo e di sospensione momentanea dell’incredulità e del giudizio. Chiede cioè allo spettatore di mettere in stato di momentaneo silenzio queste due facoltà. Obbedire alla prima richiesta non ci costa particolare fatica perché apparteniamo a una specie di creduloni. È sospendere il giudizio che ci risulta invece particolarmente difficile, perché siamo una specie giudicante. E giudicare ci piace infinitamente.

Dobbiamo però distinguere fra due diversi tipi di silenzio: uno è quello che sarebbe necessario saper fare mentre qualcun altro sta parlando – una cosa di cui quasi nessuno è più capace –; l’altro è il silenzio che siamo capaci di sopportare quando siamo da soli.

Quando siamo da soli il silenzio, potreste dire voi, è un fatto immediato, naturale. Siccome però, a differenza di quanto possiamo fare con gli occhi, non possiamo chiudere le orecchie, tantomeno quelle della nostra mente, non è affatto facile né trovare davvero il silenzio, né imparare davvero a far tacere la mente. Infatti, immediatamente, appena siamo soli, un noioso diavoletto comincia a parlarci dal fondo della nostra coscienza e ci infastidisce con tutti i suoi rimproveri, le sue correzioni, le sue paturnie, rammentandoci i nostri doveri e quel che stiamo sicuramente tralasciando di fare.

Peccato. Sarebbe stato un momento perfetto per meditare, per cercare ispirazione, magari per avere perfino un’idea nuova, e quel folletto maligno ce lo viene a rovinare. Taci, gli diciamo. Ma ormai il danno è fatto. Così prendiamo il cellulare, accendiamo la radio o apriamo il computer, e ci rifugiamo di nuovo nel rumore. Che subito ci accoglie e ci coccola distraendoci da noi. Avremmo potuto ascoltarci e chissà cosa avremmo potuto scoprire. Pazienza, sarà per un’altra volta.

Anche il primo tipo di silenzio, quello cioè di cui dovremmo essere capaci quando siamo in compagnia, quando conversiamo, apre la stessa questione: la questione dell’ascolto. In questo caso però l’ascolto degli altri. 

Sì, perché ovviamente silenzio e ascolto, dal momento che la natura ci ha generosamente fornito dell’udito, sono indissolubilmente collegati. Non lo avesse fatto quello che sto dicendo sarebbe assurdo poiché non avremmo neanche il concetto di silenzio. Concepiamo il silenzio solo perché conosciamo il chiasso. Che fra l’altro, è evidente, ci appassiona, tanto da aver trasformato il pianeta in una babele di lingue e rumori che credo vengano giudicati molto severamente dalle altre forme di vita presenti sulla terra. 

Ora, se il silenzio qualcuno ha comunque tentato di insegnarlo trovando, anche se faticosamente, allievi disposti ad apprenderne l’arte, l’ascolto ci appare un talento che non ha bisogno di particolare esercizio o disciplina. Niente di più sbagliato. 

Proprio perché l’udito non è un fenomeno volontario e non possiamo azzerarlo girando qualche manopola, occorre che facciamo tesoro della lezione di Ulisse, che per controllare i pericolosi effetti dell’ammaliante canto delle sirene, sigillò le orecchie dei compagni con dei tappi di cera e si fece legare all’albero della nave. 

Per riepilogare: le lezioni più straordinarie sull’arte del silenzio ce le hanno date il creatore dell’’arte del mimo Etienne Decroux e il suo formidabile allievo Marcel Marceau; le lezioni più straordinarie che conosco sull’arte dell’ascolto, ce le ha invece impartite William Shakespeare. Gli esempi sarebbero molti. Mi concentrerò, per cominciare, sul suo Otello

In quel testo Shakespeare ci mostra i pericoli e le tragedie che nascono dal non saper ascoltare correttamente. Otello, lo potremmo definire infatti non la tragedia della gelosia, bensì la tragedia dell’ascolto malato.

3. Ascoltare è pericoloso e può nuocere gravemente alla salute

Otello … io, qui, sinceramente come quando confesso a Dio le colpe del mio sangue, esporrò a voi giudici severi come fiorì il mio amore per la fanciulla, e il suo per me… Suo padre mi aveva caro e spesso m’invitava in casa. Sempre voleva ch’io gli raccontassi la storia della mia vita, anno per anno: le battaglie, gli assedi, le fortune, io raccontavo: dal tempo dell’infanzia avanti avanti fino al giorno stesso in cui stavo narrando. Ricordavo i gravi disastri, i commoventi episodi in terra e in mare, e le volte che per un capello avevo evitato la morte, e la volta che fui fatto prigioniero da un tracotante nemico e venduto schiavo; del mio riscatto, dopo, e delle molte cose vedute nei miei lunghi viaggi: gli antri vasti e i neghittosi deserti, le aspre cave e le rocce e le montagne alte fino a toccare il cielo con la vetta – e parlavo di cose tutte vissute e di mia esperienza – dei cannibali che si mangiano l’uno con l’altro, e degli antropofagi, e degli uomini che hanno la testa sotto le spalle. Seguiva seria e attenta, Desdemona, il mio racconto: e quando le faccende di casa talvolta la chiamavano altrove, se le sbrigava di premura, ed era lì di nuovo seria seria, con orecchio teso, goloso delle mie parole. Io, questo avendo osservato, colsi una volta il buon momento e procurai di farmi chiedere da lei, con calda preghiera, che io le raccontassi tutto intero quel mio peregrinare che solo a brani staccati aveva fino allora potuto udire e non con tutta l’attenzione. Io così feci e spesso le strappai una lacrima narrando di qualche più duro colpo della sorte sostenuto in gioventù. Finito il mio racconto ella mi corrispose per le mie pene un mondo di sospiri. E giurava che, in coscienza, la storia le era parsa strana; oltremodo strana; e commovente; oltremodo commovente. E che avrebbe voluto non averla mai ascoltata: ma avrebbe – tuttavia – desiderato che il cielo l’avesse fatta nascere uomo, e un uomo così. Mi ringraziò e mi pregò, se avevo un amico che fosse innamorato di lei, di insegnargli a raccontare la mia storia, che sarebbe stato subito bene accetto. A queste parole io risposi: ed ella mi amò per i tanti pericoli passati, e io l’amai perché ne aveva tanta pietà. Questa è tutta la magia che usai con lei. Eccola, è qui: mi sia lei testimone.

Questa è la ricostruzione che Otello fa al Doge, a Brabanzio e alla corte veneziana di quanto è avvenuto fra lui e Desdemona. Lui ha raccontato la sua storia; Desdemona dapprima lo ha spiato, poi lo ha ascoltato, infine lo ha provocato a esagerare. Subito dopo è stata Desdemona a parlare e questa volta è stato Otello che ha ascoltato. Così è scoccato l’amore tra loro. Semplice.

Mica tanto. Se infatti osserviamo meglio ci accorgiamo che la divisione fra chi parlava e chi ascoltava non è stata mai netta. Shakespeare è maliziosamente chiaro: Otello, mentre racconta ed è ascoltato da Desdemona, a sua volta è molto impegnato a osservare l’ascolto di lei. Cioè ad ascoltare come è ascoltato. È così che scopre che Desdemona vuole che le venga raccontato ancora e di più. Amerà qualsiasi uomo le racconti una storia così atroce e bella. E lui l’accontenta.

Quindi dobbiamo chiederci: si ascoltano davvero Otello e Desdemona? O, per dir meglio, che tipo di ascolto è il loro? Nel prosieguo della loro vicenda risulterà chiaro infatti che non sono capaci di ascoltarsi: Otello non ascolterà Desdemona quando lei si proclamerà innocente, Desdemona sarà completamente sorda davanti ai chiari segni che il Moro le darà della sua pazzia d’amore.

Perché l’ascolto è un fenomeno pieno di ambiguità e Desdemona e Otello moriranno per essersi ascoltati dapprima troppo e poi troppo poco: per essersi ascoltati sempre male.


4. Ascolto e udito: il rischio della complicità

Tutti desideriamo essere ascoltati e dunque diciamo ai nostri figli: “Ascoltami una buona volta!”. “Ascoltateci” dicono i maestri agli allievi, i potenti ai sudditi, i sacerdoti ai fedeli. “Ascoltami” chiediamo a Dio nelle nostre preghiere. Vogliamo tutti essere ascoltati e compresi. 

Inoltre, ci piace ascoltare, spiare. L’elenco sarebbe lungo. Ascolta il prete nella confessione, lo psicanalista nella seduta, l’insegnante nell’interrogazione, il giudice nella testimonianza, il carnefice nella tortura, Dio le nostre preghiere, il bambino le favole, i genitori il figlio, ascolta l’amico, ascolta l’amante. Non possiamo smettere mai di farlo, non ne siamo capaci, non è possibile. Possiamo chiudere gli occhi ma non chiudere gli orecchi. Possiamo al massimo tapparceli. Perché questo è l’udito: un’enorme pattumiera in cui finisce tutto, anche ciò che non vorremmo. E la raccolta non è differenziata.

L’ascolto infatti è qualcosa di più dell’udito. Udiamo perché non possiamo evitarlo, nell’ascolto invece è presente il rischio che ci rendiamo complici di ciò che udiamo. 

Shakespeare ci instilla il sospetto che ascoltiamo, come Otello e Desdemona, soltanto ciò che vogliamo udire, che ascoltando diciamo che cosa desideriamo. 

C’è anche un secondo sospetto. Anche se non ne siamo consapevoli, sia quando parliamo sia quando ascoltiamo facciamo anche un’altra cosa: quando parliamo ascoltiamo come veniamo ascoltati e quando ascoltiamo manipoliamo chi sta parlando a dar voce ai nostri desideri, anche quelli più oscuri.

Nella loro prima scena d’amore Otello e Desdemona non solo, infatti, si parlano e si ascoltano; entrambi sono impegnati a osservare con estremo interesse l’ascolto dell’altro. Si comportano cioè come un attore e una spettatrice, e poi, scambiandosi i ruoli, come un’attrice e uno spettatore. 

La metafora della scena teatrale ci aiuta a comprendere meglio il fenomeno dell’ascolto. Cosa penseremmo di un attore che si disinteressasse o ignorasse i tanti segni che gli mandiamo dalla platea? D’altra parte, anche lo spettatore è consapevole che il suo linguaggio (fatto di attenzione, applausi, fischi, colpi di tosse, bisbigli al vicino, sguardi complici) è osservato con ansia dall’attore che ne dipende interamente.

Shakespeare colloca l’innamoramento di Otello e Desdemona proprio all’interno di questa metafora teatrale e ci mostra che l’ascolto non avviene mai da una parte soltanto. L’ascolto è responsabile sia dell’innamoramento che della seduzione.

Per essere più precisi: l’ascolto non è un’angelica disponibilità alle parole altrui, ma la complicità con ciò che viene raccontato. Infatti, chi è responsabile dell’innamoramento, il Moro o la bella Veneziana? Desdemona che ascolta Otello come una spettatrice o lui che ne dipende come un attore narciso? 

È ovvio che, dopo quest’esordio ambiguo nessuno dei due potrà più fidarsi dell’altro. Otello non potrà fidarsi di Desdemona perché sa che si è invaghita delle sue fanfaronate e che sarebbe capace di sedurre un altro uomo con la sua stessa debolezza. E guarda caso Cassio ha tutte le caratteristiche adatte a essere quell’uomo. Desdemona non potrà fidarsi di Otello perché, se non è completamente ebete come a volte ci viene presentata (e mi è difficile crederlo perché Shakespeare aveva un’idea altissima dell’intelligenza emotiva femminile), sicuramente sospetterà di un uomo tanto debole e vanaglorioso. Così facilmente manipolabile.

Ovviamente immagino che ciò che sto dicendo urterà qualche sensibilità. Ma io non sto affatto dicendo che Desdemona se l’è cercata. Il suo comportamento non giustifica in nessun modo il femminicidio compiuto da Otello. Sto dicendo semplicemente che il testo di Shakespeare indica chiaramente che anche lei non è capace di ascoltare senza manipolare. Un peccato in cui cadiamo tutti, io per primo, e non per questo si deve essere condannati a morte.

Perché tutti noi, siamo sinceri, osserviamo sempre con estrema cura come siamo ascoltati. Lo facciamo perché il nostro scopo è persuadere ed essere persuasi, sedurre ed essere sedotti. Inoltre, quando vediamo che colui che parla sta osservando com’è che lo stiamo ascoltando ci accorgiamo di avere la straordinaria occasione di manipolarlo inducendolo – proprio come fanno Desdemona con Otello e Otello con Iago – a darci esattamente ciò che vogliamo. Anche perché possiamo farlo nascondendoci. Tirando il sasso e nascondendo la mano.  

Ho detto di ciò che fa Otello con Iago. E questo punto dobbiamo approfondirlo.

5.Iago, ovvero “Non valgo niente se non parlo contro”

Il pensiero di Iago, come lo esprime lui stesso, è questo:

Il mondo è pieno 

di uomini “franchi e leali che giudicano onesti tutti quanti, 

anche coloro che solo lo sembrano”

Per mettere la loro credulità a rendita, 

poiché questi uomini si fanno facilmente “menare per il naso”

c’è un modo semplice: 

“avvelenare con grida di paura e disperazione la loro gioia 

e infestare di mosche la loro felicità 

in modo da farle perdere colore”.

È seguendo questo semplice precetto che si beffa di Otello e Desdemona facendosi addirittura aiutare da loro. 

Gli era stato sufficiente ascoltare come era nato il loro amore per capire che, con le stesse armi e un po’ di fiducia nella loro grullaggine, poteva invertire il risultato. 

Il loro ascolto non era stato limpido, e Iago lo vide chiaramente: erano, come tutti, completamente sordi l’uno all’altra.

Desdemona si era innamorata ascoltando Otello? 

Bene, ascoltando Iago sarebbe impazzito il Moro. 

Era stata Desdemona col suo ascolto complice a provocare Otello spingendolo a sbruffoneggiare? 

Allo stesso modo sarebbe stato il Moro a chiedere a Iago le false notizie che per lui divennero le prove del tradimento. 

“Basta un sospetto – è ancora Iago che parla – 

per darci il diritto di agire come se avessimo la certezza”

Sospettiamo che gli uomini siano depravati? 

Ebbene, ne siamo certi! 

La loro storia “è solo libidine, lussuria e osceni pensieri… Che schifo!”

Il sospetto è quindi l’arma che utilizza Iago. 

Saper parlare contro 

e farsi perfino “benvolere, ringraziare, ricompensare dagli uomini, 

dopo aver fatto di loro dei perfetti asini 

e aver loro tolto fiducia e tranquillità fino a renderli pazzi”.

Inoltre – sono sempre parole di Iago –: 

“nessuno potrà dire che ci comportiamo come farabutti 

poiché i nostri son consigli sinceri, onesti, logici”. 

Si tratta solo di “spingere a commettere i più neri peccati 

rivestendoli di apparenze celesti. 

Ed è così facile convincere un uomo a sostenere una causa giusta”. 

Fatto questo non resta altro che 

“versare il veleno del dubbio negli orecchi. 

I sospetti sono per loro stessa natura come veleni: 

in un primo momento si prova appena un senso di disgusto, 

ma quando cominciano ad agire sul sangue, bruciano come zolfo”.

Iago sa che gli sarà sufficiente diffondere sospetti, anche i più volgari, e gli uomini, sballottati di qua e di là come turaccioli sul mare in tempesta, resteranno in sua balia e diventeranno i suoi pupazzi.

Iago è il cattivo. Certo. 

Però, a ben vedere, si limita quasi sempre a fare l’eco ai pensieri di Otello. 

È Otello, infatti, a chiedere a Iago di rivelargli i suoi “peggiori pensieri con le peggiori parole”. Di rivelargli cioè le prove del tradimento di Desdemona. E glielo chiede nonostante Iago gli abbia già rivelato quale è il proprio peggior difetto, cioè “vedere dovunque il male”

L’acme di questo ascolto malato si raggiunge quando Otello incita Iago a fabbricare le prove del tradimento inesistente e addirittura lo minaccia se non le troverà. 

Ciò che più soffre Otello è infatti il dubbio. 

“Devo averne la certezza – dice -, 

voglio una prova concreta della sua infedeltà”.

Questo è il momento più drammatico della caduta di Otello. 

Perché a Iago non chiede, come dovrebbe, una prova della fedeltà di Desdemona? Perché non si rivolge a Desdemona per confessarle i suoi dubbi sulla fedeltà?

Otello e Iago sono, è evidente, due congiurati che si alleano nell’avvelenare l’ascolto. E nel falsificare la verità.


6. E noi?

Come ascoltiamo noi? 

Non sembra anche a voi che ci comportiamo spesso come il Moro quando chiede a Iago: Rivelami anche i tuoi peggiori pensieri con le peggiori parole

Questo sarebbe un modo davvero perverso per collaborare mediante il nostro ascolto con la fabbricazione del veleno che vogliamo bere.

Ebbene, a me pare che Iago sia nei confronti di Otello ciò che le nuove tecnologie rappresentano per tutti noi: ci sembra che parlino mentre non fanno che fare da eco e amplificatore dei nostri inconfessabili desideri. 

Accettiamo ciò che ci offrono perché veniamo confermati nei nostri peggiori pensieri. 

E non solo: perché così possiamo sempre attribuire il male a qualcun’altro. Vedessimo il male anche in noi non potremmo liberarcene tanto comodamente. Vedendolo negli altri diventa facile odiarlo e pensare che sia giusto eliminarlo. Ed è così che lentamente ci convinciamo di avere una missione: uccidere il male (ciò che crediamo sia male). 

Il fatto che sia fuori di noi è il sotterfugio che utilizziamo per non vederlo anche dentro di noi.

Negli ultimi decenni siamo riusciti in un’impresa grandiosa: autoconvincerci a passare gran parte del nostro tempo non a vivere, ma piuttosto a spiare le vite degli altri. Come Iago. Con i mille schermi e le straordinarie tecnologie che abbiamo a disposizione, è stato un gioco da ragazzi. 

Se un tempo per spiare dovevamo guardare dal buco della serratura, oggi è sufficiente pigiare un tasto e così, semplicemente, usando le parole di Iago: “mutiamo la virtù degli uomini in peccato e con la loro stessa bontà tessiamo la rete che li avvolge tutti”.

Gran cosa la tecnologia. Ascoltiamo, seduti, pendendo dalle labbra di qualsiasi ciarlatano, imbambolati dalle immagini agitate davanti ai nostri occhi. La tecnologia non ha bisogno di far molto di più: anzi, siamo addirittura noi che, proprio come fa Desdemona con Otello, chiediamo di averne ancora, di averne di più. Siamo proprio noi che, come fa Otello con Iago, chiediamo venga data voce ai più neri sospetti dell’animo; siamo noi che chiediamo le prove della nostra stessa sofferenza. 

A coloro che detengono le chiavi di quelle tecnologie è sufficiente farci da eco: ubbidire alle richieste dei nostri più bassi istinti che nel frattempo sono stati coltivati e di cui adesso siamo schiavi. Noi amiamo le nostre catene e beviamo tutto. Quasi imploriamo che continuino finché, giunti all’acme, diamo sfogo al male che, innaffiato da questo veleno ha raggiunto dimensioni incredibili. 

Noi ci scanniamo, qualcuno prospera.

Il luogo in cui si trova Iago adesso sono le nostre menti in cui si è conficcato dritto come un chiodo.

Questo può diventare l’ascolto dell’ascolto altrui: un atto di manipolazione da parte della tecnologia e, da parte nostra, di collusione.

Infatti, esistono discipline interamente dedicate a studiare e monitorare l’ascolto. Esse ci osservano minuziosamente mentre ascoltiamo. Per cui si può dire che oggi ciascuno di noi è ascoltato veramente con grande scrupolo non tanto mentre parla ma soprattutto mentre ascolta. 

Ma, poiché non siamo Alice nel paese delle meraviglie e dunque sappiamo benissimo di essere osservati mentre ascoltiamo, cogliamo l’opportunità. Potremmo alzarci e andarcene, potremmo ribellarci e chiedere silenzio. Invece, sappiamo che quello è il nostro momento di gloria: coloro che parlano, prima di decidere ciò che diranno, vogliono assolutamente sapere cosa vogliamo sentirci dire. Ci osservano ossessivamente proprio per sapere cosa vogliamo. Dipendono, in quel momento, interamente dal nostro ascolto. Quello che vorremo ci sarà abbondantemente dato, promesso, profetizzato. Tanto sono soltanto parole. 

Questa è la versione assunta nella modernità dalla promessa di Cristo: “chiedete e vi sarà dato”. Noi non ci tiriamo indietro e chiediamo che ci venga mostrato dal buco della serratura dei nostri schermi il male già contenuto nei nostri peggiori pensieri. Per conservare una parvenza di perbenismo fingiamo anche di stupirci del fatto ovvio che l’eco subito ci accontenti fornendoci il male in dosi massicce. 

Avviene così che il nostro turismo gratuito sulle vite altrui – sulle bassezze, le sofferenze, le morti, le attività sessuali, le bombe che dilaniano, la fame – si possa esercitare per ore ed ore della nostra giornata senza che neanche un sospetto di compassione sfiori le nostre anime intorpidite. Come turisti dopo la vacanza torneremo rapidamente alle nostre esistenze dimenticando subito il troppo che abbiamo visto e udito. Al massimo scuoteremo la testa: forse se lo sono meritato, forse sono persone sfortunate. In ogni caso, penseremo, noi non possiamo farci niente.


7. Un ascolto genuino

Forse esiste anche un ascolto genuino. Se esistesse, questo tipo di ascolto dovrebbe sempre comprendere ciò che ignoriamo: i nostri dubbi. Dovrebbe cioè iniziare dal silenzio.

Solo partendo dal silenzio saremmo davvero capaci di ascoltare. Non quando siamo sopraffatti dai rumori di ciò che crediamo di sapere già. Immersi nel chiasso, ci tappiamo le orecchie davanti all’ignoto. Nel silenzio invece potremmo udire il rombo assordante che fa il mondo ferito. Ma poiché quel rombo non è una musica allegra ma un fastidioso cigolio nessuno vuole ascoltarlo.

Forse c’è un ascolto autentico e un ascolto che autentico non è. Si può immaginare che l’ascolto sia autentico quando due persone accettano entrambe l’inconcepibile pericolo di cambiare idea.

Nell’ascolto non autentico invece vogliamo che sia sempre l’altro a cambiare idea. Perciò udiamo ma ci sottraiamo al cambiamento.

L’ascolto autentico, nel caso esistesse, sarebbe misurato sulla disponibilità al cambiamento reciproco: due persone che in silenzio, potrebbero ascoltarsi. 

Nelle mie fantasie talvolta immagino (spero) che in teatro possa magicamente avvenire proprio questo.

Insomma, sappiamo già, la fisica ce l’ha detto, di essere responsabili del nostro sguardo perché anche solo guardando qualcosa la modifichiamo. Perciò non potremo mai affermare di conoscere davvero com’era prima del nostro sguardo.

L’ipotesi suggeritaci da Shakespeare, è che siamo responsabili anche di come ascoltiamo. Pensavamo, per comodità, che il male consistesse solo in ciò che decidevamo di fare o di non fare, dobbiamo ammettere invece che si nasconde anche nei nostri modi di ascoltare. 

Possiamo farlo, come Desdemona, chiedendo: ancora, racconta ancora, riempimi di bei racconti; come Otello, implorando: mostrami di più, dammi le prove della malvagità!; come Iago, il vero maestro del pervertimento di questa disciplina, cioè spiando e instillando veleni. 

Otello dimostra che l’ascolto non è innocuo, che è difficile, che può esser malato. Il Moro si perde non tanto per la sua gelosia ma perché non sa ascoltare e soprattutto non sospetta di essere manipolato dall’ascolto di Desdemona prima e di Iago poi. 

La figura dello spettatore emerge dalla lettura di questa incompresa tragedia dell’ascolto con drammatica attualità e ci aiuta a immaginare che talvolta non si dovrebbe ascoltare, soprattutto quando ciò che udiamo è l’eco della nostra ignorante arroganza. 

8.Il Pettegolezzo

Non erano ingenui i greci quando decisero che era opportuno prendersi cura delle emozioni degli spettatori e perciò proibirono di terrorizzarli. Temevano che il terrore avrebbe rischiato di compromettere la loro libertà. Essi vedevano nella platea gremita del teatro dei testimoni che avrebbero dovuto giudicare imparzialmente i fatti, non delle persone inermi da sedurre e manipolare. Ciò che veniva rappresentato era per loro strettamente connesso con i destini della democrazia e sapevano che la formazione dei cittadini, la fabbricazione del loro ascolto, era un compito da non lasciare al caso. 

Resi acuti dalla storia narrata in Otello, consci che ascoltare è pericoloso, dovremo reimparare a farlo. Fortunatamente esistono ancora dei luoghi e delle occasioni per allenarci a questo compito essenziale per la democrazia. Alcune forme d’arte, fra cui il romanzo e il teatro, furono inventate anche per questo.

Ed eccoci così alla seconda lezione di Shakespeare sull’ascolto. La si trova nella seconda parte di Enrico IV che si apre con un attore che fa da prologo. Indossa uno strano costume, su cui sono disegnate mille lingue. Shakespeare lo chiama Rumour, cioè Pettegolezzo:

Aprite le orecchie, perché chi di voi tapperà la via dell’udito quando il Pettegolezzo parla a voce alta? Io, facendo del vento il mio destriero, diffondo i fatti degli altri e ciò che sta avvenendo su questa palla di terra. Sulle mie lingue continuamente viaggiano calunnie che so diffondere in ogni idioma, rimpinzando gli orecchi dei mortali di false notizie. Parlo di pace mentre l’ostilità, nascosta sotto un sorriso onesto, sta per pugnalare il mondo. Chi meglio di me, il Pettegolezzo, sa provocare i mostri della paura e arruolare spaventosi eserciti annunciando una guerra imminente e non vera per distogliere l’attenzione da altre calamità? Il Pettegolezzo è un piffero in cui soffiano supposizioni, sospetti, gelosie ed è così facile suonarlo che anche il mostro ottuso dalle mille teste può usarlo. Ma che bisogno ho io di far l’anatomia del mio corpo a voi che siete i miei seguaci?…

Così Shakespeare mette in guardia tutti noi spettatori, seguaci del pettegolezzo, come ci chiama, sui pericoli che corriamo. 

A me pare che Shakespeare parli esattamente di noi. Di come, istigati continuamente dal malvagio, gettiamo via le nostre vite e i tesori che contengono davanti agli schermi che umiliano la nostra umanità.

Poiché è stato anche detto che non ciò che entra dalla bocca contamina l’uomo ma ciò che esce dalla bocca contamina l’uomo a chi potrò ispirarmi io, spettatore del XXI secolo? Se non so più quando e come ascoltare sono infatti, adesso lo so, esposto a una drammatica contaminazione. Dovrei essere capace di alzarmi e dire: “basta!”. Dovrei essere capace di chiedere il silenzio. Sarò capace di farlo? Di ribellarmi?

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