È solo quando dico “tu” che divento realmente un “io”

Autore

Paolo Fedrigotti
Paolo Fedrigotti (Rovereto, 1981) si è laureato in filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi su Dante e la filosofia medioevale. Si è specializzato nell’insegnamento secondario presso la Ssis della Libera Università di Bolzano. Ha conseguito il baccellierato in Sacra Teologia presso lo Studio teologico accademico di Trento. Nella stessa città è docente di storia della filosofia e di filosofia della conoscenza ed epistemologia all’Istituto teologico affiliato e all’Istituto di scienze religiose, nonché di filosofia e storia nei licei di Riva del Garda. È membro della Scuola di Anagogia di Bologna e autore di numerosi articoli specialistici e monografie.

L’esodo di Adamo in Genesi 2 e il valore della relazione

L’articolo che segue afferisce al grandioso e solenne ambito dell’antropologia biblica. Il riferimento ad una disciplina tanto particolare non deve sorprendere: chi, infatti, può pensare anche solo di pronunciare il termine esodo senza evocare, almeno implicitamente, il variegato ventaglio di significati che esso assume nella Bibbia, grande Codice della cultura occidentale? Dire esodo significa anzitutto rimandare al secondo libro dell’Antico Testamento: la vicenda che esso ci consegna concerne la storia del cammino di un popolo o, meglio, la storia di un popolo in cammino. La sua non è una cronaca in senso stretto, ma una narrazione teologica del viaggio – interiore prima che esteriore – che Israele copre insieme al suo Dio e, allo stesso tempo, del viaggio che il popolo compie verso Dio: l’esperienza esodica del cammino è dunque compresa entro un orizzonte metastorico, quello del rapporto con il Trascendente, e trova in Abramo il suo paradigma fondamentale. Lo status di quest’ultimo è ontologicamente esodico: egli è un arameo errante1 che, assecondando l’invito divino ad andarsene dal proprio paese, dalla sua patria e dalla casa di suo padre2, procede – sperando contro ogni speranza3 – verso la Terra promessa. C’è senz’altro continuità tra l’esperienza di Abramo a quella del popolo d’Israele, chiamato ad uscire dall’Egitto, terra di schiavitù, per riguadagnare, mediante l’esperienza del deserto, la propria piena dignità: tale continuità è data dalla presenza per entrambi di un Dio che entra in relazione e che si smarca dalle tante divinità che popolano l’orizzonte religioso dei popoli del vicino Oriente. Il Dio d’Israele è un Dio personale che – lo si evince anche dalla teofania dell’Oreb4 – non esiste soltanto, ma provoca Israele e lo invita ad uscire da se stesso per costruire con lui un rapporto stabile di fedeltà e d’amore. 

Non di questo vogliamo trattare in tal sede, quanto del primo esodo di cui la Bibbia dà conto: quello descritto nella pericope tanto nota quanto fraintesa di Genesi 2, 18-24. Nel secondo racconto di creazione ospitato dalla Scrittura leggiamo:

«Poi il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”. Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: “Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta”. Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne». 

Il brano appena riportato e le immagini in esso incastonate sono celeberrime; che queste vadano interpretate simbolicamente è evidente. Cosa vogliono veicolare? La domanda è molto insidiosa; risponderle è possibile purché si tenga presente la miriade di precomprensioni e di letture fuorvianti che l’hanno accompagnata in passato e l’accompagnano ancora oggi. Dovendone parlare brevemente, possiamo fondamentalmente affermare che tale testo si configuri come un potentissimo messaggio d’umanità per l’uomo d’ogni tempo. A catalizzare la nostra attenzione, qui, non è tanto la constatazione divina con cui il brano si apre (constatazione peraltro importante, che mostra neppur troppo indirettamente come una persona che non stabilisca relazioni con l’altro si autocondanni alla morte esistenziale), né la pedagogia di Dio (che plasma dal suolo ogni sorta di bestia e la conduce all’uomo per far sì che egli maturi da sé la consapevolezza circa necessità di rapportarsi a qualcuno che gli sia simile); a colpire non è neppure l’elemento della costola (che dice il contrario rispetto a quello che tanti credono dica, ossia la pari dignità di Eva rispetto ad Adamo), ma – almeno per l’economia di quest’articolo – il torpore che Dio fa scendere su Adamo: è interpretando questo simbolo che possiamo mettere a fuoco l’esodo a cui, con Adamo, ciascuno di noi è naturalmente chiamato.

L’addormentamento dell’uomo a cui il passo genesiaco fa riferimento (in ebraico tardemah) non è semplicemente una condizione che impedisce ad Adamo di assistere all’ineffabile attività creatrice di Dio; è qualcosa di più profondo. La traduzione greca dei Settanta rende il vocabolo con ekstasis che significa letteralmente uscita da se stessi. Tale scelta è potentissima: veicola l’idea che l’uomo, per poter entrare in relazione con l’altro, debba vivere l’esperienza dell’esodo da sé, dalla propria ottica, dalle proprie aspettative, per accoglierlo così com’è, per lasciarlo essere appunto altro da se stesso, cioè diverso da come lui lo vorrebbe, lo desidererebbe o lo immaginerebbe; al tempo stesso, la scelta in oggetto cela pure la convinzione che l’altro possa esistere realmente – nella pienezza della sua libertà – soltanto quando venga riconosciuto come un tu da un io capace di relazionarsi con lui in maniera esodica. L’esperienza della reciprocità che si realizza nell’a tu per tu dell’apertura vicendevole racchiude in sé qualcosa di luminoso: solo quando ho a che fare con un altro in modo essenziale – così che egli non sia più una proiezione del mio io, ma il mio tu – conosco la realtà del parlare-​con-​uno nell’inviolabile genuinità del dono scambievole. Questo – mi sembra – è il messaggio universale della pericope genesiaca: soltanto quando io accolgo l’altro come un’Eccedenza libera, come un mistero, e quindi con stupore e con rispetto, allora egli si apre e può diventare il simile a cui dirmi e in cui specchiarmi per riconoscere me stesso; se invece lo cosifico, lo aggredisco, ne faccio una cosa tra le cose, allora egli si allontana, impedendo il mio stesso auto-riconoscimento. 

Il canto di Adamo, posizionato nella parte conclusiva della sezione valutata, esprime l’esultanza per aver finalmente trovato quello a cui egli anelava: qualcuno a cui comunicarsi. È qui che il proto-uomo – non a caso – prende per la prima volta la parola, certo di essere ascoltato e compreso da chi può fargli concretamente capire chi è. Come osserva Martin Buber – commentando idealmente l’esodo che Adamo percorre per incontrare Eva e riferendosi, insieme, ad ogni possibile relazione umana autentica – è solo quando pronuncia il tu che l’io diventa veramente io5: soltanto attraverso questa pronuncia (reale condizione di possibilità da parte dell’io per costruire pure la relazione con il Tu eterno), soltanto mediante quest’accoglienza dialogica, quest’inserimento del tu nel tempo e spazio del proprio sentire che è appunto vero dialogo, l’io può cogliersi per quello che è. Come Grazia Mannozzi e Giovanni Lodigiani affermano in una loro recente opera sulla giustizia riparativa:

«Il dialogo non è un semplice comunicare, un mero scambio di opinioni o di pareri; non è nemmeno un’opera di proselitismo nei confronti dell’altro; dialogare è disporsi eticamente (…) per ricercare uno spazio condiviso tra l’io e il tu. Senza questa disposizione etica non si dialoga ma s’impone all’altro il proprio mondo e si calpesta il suo vissuto sotto il potente peso delle parole. Comprendere il tu significa muoversi verso di lui certi del suo farsi presenza come persona, affinché nella comunicazione siano rese attive tutte le sue virtualità».6

NOTE
1. Cfr. Deuteronomio 26, 5
2. Cfr. Genesi 12, 1
3. Cfr. Romani 4, 18
4. Cfr. Esodo 3, 14
5. Cfr. M. Buber, Io e tu, in Idem, Il principio dialogico ed altri saggi, Milano, San Paolo 2011, p. 67
6. G. Mannozzi-G. A. Lodigiani, La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, Torino, Giappichelli 2017, p.156




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2 Commenti

  1. Sacrosanta verità!
    Grazie, professore, delle Sue riflessioni, sempre profonde, ampie, stimolanti.
    Sono perle di conoscenza e di sentimento, che aiutano nella crescita personale e relazionale.
    Grazie!

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