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Ivo Lizzola. In tempo d’esodo

Autore

Rosario Iaccarino
Rosario Iaccarino, nato a Napoli nel 1960, dal 1982 al 1987 ha lavorato come operaio presso la SIRAM, assumendo l’incarico di delegato sindacale della Fim Cisl; nel 1987 è entrato a far parte dello staff della Fim Cisl nazionale, prima come Responsabile dell’Ufficio Stampa e dal 2003 come Responsabile della Formazione sindacale. Cura i rapporti con le Università e con l’Associazionismo culturale e sociale con i quali la Fim Cisl è partner nei diversi progetti. Giornalista pubblicista dal 1990. È direttore responsabile della rivista Appunti di cultura e politica. E’ componente del Comitato Direttivo e del Comitato Scientifico dell’Associazione NExT (Nuova Economia per Tutti).

Una pedagogia in cammino verso nuovi incontri intergenerazionali, Città Nuova, 2023

Scorrendo le pagine del suo ultimo libro, denso di temi, si coglie tutta la complessità e la particolarità del nostro tempo, che lei definisce di “rischioso passaggio”, con tratti inediti di rottura e disvelamento. Un tempo d’esodo, appunto.

L’esodo riguarda non un popolo ma tutta l’umanità, mentre vive duri e profondi conflitti, relazioni difficili tra le diversità che comprende al suo interno, peso delle memorie ferite e fatica di fraternità impossibili. Inoltre la terra promessa è la sfida a tenere salvaguardata e viva la promessa della terra, cioè del dono di un pianeta, di un mondo “ricevuto” e da “consegnare” alla vita nascente; la promessa di “mettere al mondo”, di “dare alla vita”.

Non mancano i luoghi dove si inaugurano relazioni intersoggettive differenti, accoglienti ed emancipatrici delle soggettività e delle comunità. Pratiche che nascono sotto il segno della meraviglia, lei dice, “per come la vita cerchi vita, per la forza dei percorsi di un incontro quasi impossibile”, pratiche contrassegnate da “riconoscimento, attenzione e cura”.

I luoghi nei quali si dà forma alla vita comune sono spesso quelli periferici, delle fragilità, delle fratture, dell’attesa di ricomposizione. Il modificarsi dell’esperienza dell’alterità cambia l’esperienza del tempo. 

Lo scenario futuro si gioca all’interno della natività del gesto e della parola che legano le persone tra loro all’interno delle comunità. Si decide lì, nella reciprocità, nella prossimità, nella politicità del gesto, nella sua ricerca di senso.

Lei individua nel dono – una strada virtuosa, ma nient’affatto scontata – il  possibile fondamento di una fraternità tra sconosciuti: un esempio significativo è quello della donazione e dei donatori del sangue.

Tutto il sangue trasfuso negli ospedali italiani è sangue donato. E’ l’Italia che ogni giorno compie un gesto controcorrente: donare una parte di sé (di tempo e di sangue) a chi è in condizioni di bisogno, alimentando in tal modo un immenso circuito di fraternità tra sconosciuti. Perché il sangue non sai a chi andrà quando lo doni, né da chi arriva quando lo ricevi. Il dono però non è scontato, fa parte di una grammatica delle relazioni che va costantemente alimentata. Si dona perché ci si riconosce interdipendenti, ma tanti si stanno chiudendo nel confine del proprio io. Si dona perché ci si riconosce appartenenti a un’unica grande famiglia, ma tanti stanno tracciando perimetri e distanze.

Proprio cogliendo la cifra delle sue parole, l’esodo porta con se una radicale ambiguità; è ricerca faticosa di una convivenza nuova, piena di perturbazioni e di conflitti non sempre generativi.

L’esodo è esperienza di separazione e di inizio, di distanza, di slegame e di nuovo legame osato; eppure, e, insieme,  è anche esperienza di nuove compagnie, di condivisione con i “propri” e gli “altri”. 

Stranieri tra noi, e stranieri in noi, quasi ritroviamo relazioni, linguaggi, pratiche di un mondo possibile. Spesso emergono i fondi oscuri del rancore e del risentimento, del senso di minaccia e della paura. I linguaggi, le pratiche e le relazioni, allora, possono divenire quelle della legittimazione dell’esclusione, della rabbia della negazione dell’altro, come ricorda Maria Zambrano. L’altro lo puoi temere e puoi farne un nemico, ma dell’altro puoi vedere anche lo sguardo che ti chiede affidabilità e cura. Pure nel cuore dei conflitti.

Senza una cura dell’interiorità, non siamo in grado di incontrare la verità di questo tempo. L’educazione sentimentale ruota attorno all’imparare a sentire e a patire: non esistono tecniche per questo ma solo un rigoroso, irrinunciabile, lavoro su se stessi. Lei parla in proposito di operare un salto di coscienza.

Salto di coscienza non è solo acquisire una più ampia capacità di controllo di oggetti e di poteri…Capacità (capax), cioè ampiezza, profondità e recettività. Tutto questo chiede una “capacità di sentire” che attraversi il nostro pensare e il nostro fare, anche la loro inadeguatezza nell’abitare questo tempo. Dobbiamo ancora incontrarla la verità di questo tempo drammatico. Toccando il fondo del nostro tempo si sente il bisogno di sminare un atteggiamento verso il vivere scosso dalle paure e dalle freddezze, dal vuoto e dalla violenza. Da sminare non c’è solo la potenza dell’aggressività e del distanziamento, ma anche del rischio di un’autodistruttività e di una rassegnazione che si fa tentazione di lasciare la presa. Perché – come dice Silvano Petrosino – la vita quando non manifesta il suo aspetto promettente, fatica a essere desiderata.

Routine e conformismo sono i nostri peggiori nemici, a maggior ragione quando il tempo ci spinge all’esodo da sé stessi e ad andare verso l’altro, a superare il già dato, in quanto, come avverte, dopo la notte non torna il giorno ma si apre un’alba nuova. 

…a condizione che la notte sia stata di lotta, di sperdimento anche, e insieme, un tempo di verità, di conoscenza dei propri moventi profondi (distruttivi e generativi), e quindi di “respiro” nuovo della coscienza. E’ difficile definire dove andare in tempi di esodo come questo: sia per progetti personali, familiari che per quelli comunitari, i progetti politici. In questi spesso ci si rifugia nel cortocircuito delle “ripartenze” o nelle illusioni del “ripristinare”. 

In che direzione bisogna allora muovere?

Dove andare sarà anzitutto definito, via via, dal ristabilirsi dei legami e di nuovi equilibri, dall’organizzare il sentire e la direzione del camminare insieme. Dove andare chiede un nuovo e forte sì alla vita, un’alimentazione dell’origine, una (ri)scoperta delle sorgenti. In oasi di fraternità, per dirla con Edgar Morin. Da dove viene il nostro fare, il nostro incontrare, il nostro pensare, anche il nostro sentire? Da dove? Da chi? Da quale parola? Da dove viene quel che siamo e quel che facciamo? Dove origina? Dov’è la fonte? Questo serve chiederci oggi, questo va indagato, questo dobbiamo aiutarci a trovare, insieme.

Maria Zambrano direbbe che bisogna rimettere al mondo il mondo. O, come lei scrive, vivere nella tensione a cogliere il “segno di ciò che viene”. Emerge che il tempo d’esodo è fatto soprattutto di linguaggio poetico. E’ ciò che colgo quando parla del “far avvenire”.

Si tratta di stare aperti e attenti a tutti i luoghi nei quali le donne e gli uomini vivono transizioni, passaggi, smarrimenti, ripensamenti delle loro scelte. Incontrare le avventure umane che stanno nel viaggio è fonte di apprendimento. Stare nel viaggio vuol dire non trovare subito (né cercare con troppa ansia) risposte risolutive e una volta per tutte a questioni aperte e non già definite. Pensando e agendo insieme potremmo alimentare correnti positive in cui il lavoro si rinnova, il denaro assume un senso e una forma d’uso diverso, le cose vengono guadagnate, coltivate, ammirate, rese belle in una specie di “danza strana” in cui ci si prende e ci si lascia. Per poi riprendere e lasciare ancora.

La questione intergenerazionale è uno dei temi a lei più cari. Nel libro parla della relazione tra le generazioni, ma, a differenza di quanto tendenzialmente accade nel discorso pubblico, punta l’attenzione sugli adulti e sulla necessità che riscoprano alcune dimensioni fondamentali della loro maturazione umana: la cura, la promessa e il potere.

Adulto è anzitutto chi ha cura del futuro di altri, specie di chi cresce, è cura di un futuro cui non si parteciperà direttamente. E’ cura dunque di un lascito e di una consegna: di ciò che vale e supera l’usura del tempo e il vantaggio e la sicurezza del presente. Questa cura è capace di ricapitolazione e narrazione, capacità di consegnare dedizioni, sogni preziosi di fraternità, di giustizia, di dignità: pure se interrotti, spezzati senza successo…..il futuro allora è tutto affidato agli occhi e alla presenza, alla fiducia di altri. 

Adulto è chi osa promettere e impegnarsi. Offrire sé in pegno nella promessa, perchè fare promessa è sempre promettere se stessi. Modo di condividere la vita tra le generazioni.

L’adulto esercita potere: sceglie e decide, partecipa alla vita delle istituzioni, la pienezza dei diritti. Potere è esperienza delicata: può essere vivere e aprire possibilità, offrire possibilità. Essere adulti è offrire spazio per nuove declinazioni del vivere nuove alleanze, e vegliarle a una certa distanza…

Nel libro risuonano pensieri di Maria Zambrano e di altri e altre intellettuali di grande spessore quali Lèvinas, Harendt, Kristeva, Weil, ecc.. Della filosofa francese, nel capitolo dal titolo “un pensare innamorato”,  propone un concetto assai interessante: ogni volta che il pensiero accetta legami alla cui costruzione non ha contribuito rischia di diventare schiavo.

Serve uno sguardo che consenta alla mente di rimanere fedele alle cose, attenta al loro apparire, al loro rivelarsi. Un guardare in cui si sa mettere tra parentesi il proprio io mantenendo un’attenzione aperta e raccolta sull’altro, una disposizione a non prendere a non resistere. Uno sguardo attento, appunto amante.

In tempo d’esodo per trovare qualcosa non è necessario cercarla; serve piuttosto essere in ricerca: conoscere non è afferrare, plasmare, non è penetrare il reale, ma “apertura ospitale” della mente.

L’educazione, intesa come possibilità di tirare fuori il meglio di noi stessi, è l’arte della conoscenza e dell’apprendimento, ma non si dà senza la relazione, senza l’intersoggettività.

La relazione educativa diventa una forma della conoscenza etica: questa, come ci indica Lèvinas, si dà nella misura in cui il conoscere salvaguarda l’altro “nella sua trascendenza”. E’ decisivo andare incontro all’altro in modo da “essere in ritardo” perché abbia il tempo e il luogo di autorivelarsi nella sua differenza. 

Nei paesaggi dell’educazione servono buone guide e affidabili compagnie.

Chiude il libro con due parole significative, che indicano un metodo perché questo tempo d’esodo sia trasformativo del mondo: leadership e radicalità.

Per stare alla metafora, più bella è la stagione del ramo e della foglia, del fiore e del frutto, come anche la stagione del tronco robusto. La stagione della radice è una stagione nella quale si entra e si rimane in penombra, però di questo c’è bisogno perché da lì si peschi altra linfa vitale, con rilanci fecondi.

Questa è la radicalità tipica di una leadership generativa in un territorio, che esplora le profondità della vita comune per fare crescere energie esprimendo orientamento alla generosità, e anche raffinata intelligenza.

Ivo Lizzola insegna Pedagogia sociale e Pedagogia del conflitto e della marginalità presso l’Università degli Studi di Bergamo

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