La ripresa sarà sostenibile soltanto nella misura in cui il sindacato sarà parte integrante del processo. E, comunque, sarà quella che ci assumeremo la responsabilità di creare.
Gabriel Garcia Marquez, L’amore ai tempi del colera
I primi quesiti a venire in mente sono stati “quanto durerà? E quanto sarà dura?” Abbiamo cercato di articolare la risposta in un breve paper scritto con Daniele Langiu dal titolo Perché l’attuale crisi sarà costosa, duratura, difficile da tenere sotto controllo. Interpretazione di uno shock di molteplice natura, globale e che colpisce ripetutamente.
Poi, pian piano, nella testa di tutti, si è venuto formando un quesito molto più difficile: “E dopo, come sarà il dopo?”.
Si può provare a rispondere ad esempio ricorrendo alla distinzione breve-medio-lungo periodo. Usando questa distinzione ci si trova a dover chiarire quanto effettivamente ciascuno di questi intervalli sia lungo, e cioè a trovare un criterio che non sia meramente dato dal numero di giorni, o di mesi, o di anni di durata di ciascun periodo, un criterio che sia derivato dai valori forti, sperabilmente condivisi. Ecco, i valori. I valori servono a guidare le scelte che dovremo fare, ovviamente. Esempio: all’inizio di questa brutta avventura io ho scritto che ci trovavamo di fronte ad un trade-off tra crisi sanitaria e crisi economica. Questo lo sottoscrivo ancora oggi, il trade-off c’è: è solo il ricorso ai valori che elimina il trade-off, che consente di risolvere in senso univoco il problema oggetto di tanta discussione: “ripartiamo, o no?”. Ho visto con piacere che il 95% degli economisti intervistati dalla Booth School of Business al proposito ha dichiarato che “prima la pandemia, poi il pil” (Sintesi mia). Avessimo queste proporzioni tra i politici, gli alti funzionari! E quanto durerebbe questa fase? Premesso che al quesito è impossibile rispondere, poiché la risposta dipende da una quantità enorme di variabili tra cui il grado di rispetto del distanziamento personale, vedo in letteratura riferimenti a un periodo di due-tre mesi da ora.
Poi c’è il medio periodo o la transizione. La transizione si caratterizza per essere un breve periodo di durata piuttosto lunga, cioè un periodo in cui la pandemia viene gradualmente messa sotto controllo, anche se imperfetto. Il distanziamento individuale resta, le attività produttive e commerciali vengono riavviate gradualmente e secondo criteri di sicurezza pubblica, la scuola soffre perché l’idea di riportare gli studenti in aula è pericolosa, e occorrerà escogitare metodi per mandare avanti l’attività scolastica in forme anche radicalmente nuove. L’insegnamento a distanza? Bella cosa, in questa emergenza, per gli studenti che hanno accesso a computer e alla banda larga, a genitori istruiti che li possano seguire, a condizioni generali di vita familiare non punitive. Sarà un periodo in cui dovremo imparare a fare le cose di sempre in modo diverso, e alcune delle cose di sempre andranno abbandonate del tutto.
Quanto durerà la transizione? Beh, è tipico delle transizioni “sciogliersi” nel nuovo modello, senza che sia evidente una cesura tra un periodo e l’altro, ma una risposta possiamo azzardarla: un anno o due dovrebbero essere sufficienti per imparare a non far più certe cose, a farle in modo nuovo, a farne di nuove.
E adesso il quesito che mi interessa veramente: che tipo di società ci aspettiamo dall’altra parte del guado? La risposta è veramente banale: quella che costruiremo. A partire, ovviamente, dalle reazioni di politica economica che, stavolta, sembrano essere più tempestive e importanti che in passato. Perché dico questo? Perché sono venuto formulando un’ipotesi le cui implicazioni sono molto più radicali di quanto io non trovi in giro. Mi spiego procedendo per punti.
1. C’è accordo forte tra gli economisti che questa recessione sarà più grave di quella generata dalla grande Crisi Finanziaria del 2007. Quanto alla ripresa, invece, ci sono posizioni diverse: alcuni vedono una gran ripresa dopo la catastrofe (la famosa V); altri la tradizionale U, grazie agli interventi di governi e banche centrali; altri ancora, ma sono il solo a dirlo ad alta voce, una L, una situazione cioè in cui al crollo segue una stagnazione “permanente” a livelli di produzione e di reddito notevolmente più bassi della situazione originaria.
2. Il punto centrale della mia preoccupazione è, inutile dirlo, il lavoro. Mentre scrivo queste righe (25 aprile) vedo che Robin Wigglesworth, sul Financial Times, ci ricorda che “dalla fine della crisi finanziaria del 2008 l’economia Usa ha creato 22 milioni di posti di lavoro”. Bene, nelle ultime cinque settimane ne ha persi 26 milioni. Si stima che siano 30 milioni il Primo Maggio. E si stima che grosso modo la metà di quei 30 milioni di lavoratori è costituita da giovani, impiegati nella ristorazione, nell’ospitalità, nell’intrattenimento, nei servizi alla persona, tutti settori che difficilmente vedranno una ripresa prossima e consistente. E poi ci sono gli operai e gli impiegati del settore manifatturiero, il quale avrà difficoltà enormi a ritrovare un proprio scopo, una propria via di rinascita, a inventare metodi, prodotti, processi adeguati, e profittevoli, nel nuovo mondo. McKinsey parla di digitalizzazione totalizzante, ma io non ci credo, non in Italia. E comunque, la ripresa nel manifatturiero sarà sostenibile soltanto nella misura in cui il sindacato sarà parte integrante del processo, mediante accordi tra le parti per quella che chiamerei “valore aggiunto per tutti, in sicurezza”.
La conclusione? Per il momento, la conclusione è che questa pandemia, come tutti gli avvenimenti catastrofici del passato, indurrà una redistribuzione del reddito drammatica; il lavoro soffrirà in maniera particolare, e alcune sue fasce consistenti saranno spinte verso quella che chiamiamo “povertà estrema”; e soffriranno interi settori produttivi, ed entro questi in particolare una quantità di giovani con competenze presumibilmente non adeguate alla “società digitale”.
Il Financial Time, questo fino-a-ieri pilastro della destra economica (intelligente), parla addirittura della necessità di un nuovo contratto sociale. Cercheremo di parlarne ma, soprattutto, cerchiamo di prepararci.
Sono d’accordo con ciò che ho letto e vorrei chiedere, non ci sarà sicuramente una crescita continua, prima o poi bisognerà volenti o nolenti rallentare, e secondo me questa è l’occasione per farlo con regole nuove, ed i cosiddetti poteri forti coloro che detengono l’economia come potrebbero reagire