Un gioco da bambini di J. G. Ballard

Autore

Emanuela Fellin
Emanuela Fellin, pedagogista clinica, svolge la sua attività professionale, di studio, ricerca e consulenza per lo sviluppo individuale, sia con l’infanzia e l’adolescenza, che con gli adulti. Si occupa di interventi con i gruppi e le organizzazioni per la formazione e lo sviluppo dell’apprendimento e della motivazione. L’impegno di studio e applicazione è rivolto agli interventi nei contesti critici dell’educazione contemporanea, sia istituzionali che scolastici. Le tematiche principali di interesse vertono sui concetti di vivibilità, ambiente, cura e apprendimento. I metodi utilizzati sono quelli propri della ricerca-intervento e della consulenza al ruolo per lo sviluppo individuale e il sostegno alle dinamiche dei gruppi e delle organizzazioni.

Nel 1988 un delitto spaventoso ha tenuto con il fiato sospeso milioni di persone. Trentadue persone uccise e tutti i figli, tredici adolescenti rapiti o per meglio dire spariti. Il fatto è accaduto in un villaggio residenziale moderno, di ultima generazione, a pochi chilometri da Londra e creato appositamente per soli ricchi, consiglieri d’amministrazione, finanzieri, persone insomma dell’alta società insieme alle loro splendide famiglie. È un luogo iper-protetto, isolato, guardato a vista da sorveglianti e controllato da videocamere che filmano tutto quello che succede. Viene chiamato un consulente psichiatrico per districare la complicata situazione e comincia a sospettare che i responsabili siano proprio i figli delle persone uccise. Tutti adolescenti, tranne la bambina più piccola di otto anni. 

Il romanzo può essere collocato nel novero della distopia pur essendo centrato su un fatto di cronaca. L’apparenza realistica viene cancellata dall’enormità del fatto e soprattutto non si può non vedere che lo scrittore sta costruendo in realtà un mondo presente per il futuro. Porta alle estreme conseguenze una contraddizione del nostro presente, immaginandone uno sviluppo per il futuro. Il romanzo sembra cogliere bene la deriva del mondo in cui viviamo oggi e in cui le disuguaglianze e le ingiustizie sociali non vengono né affrontate né risolte.

C’è un altro aspetto che collega questa narrazione di ormai trentacinque anni fa e riguarda l’esperienza degli adolescenti. Tredici adolescenti a cui veniva negata ogni espressione del sé e nei quali anche gli impulsi più ribelli venivano disinnescati dall’infinita pazienza dei genitori, si erano trovati intrappolati in un eterno carosello di lodevoli attività e, nelle loro situazioni famigliari apparentemente perfette, gli elogi e gli incoraggiamenti meritati o immeritati, venivano elargiti con estrema liberalità. Questi ragazzi vedevano nei genitori l’ultimo ostacolo della propria identità. 

Quanto questo racconto può essere collegato alla situazione degli adolescenti che cercano l’estremo, non riconoscono i limiti, non comprendono un no, non riescono ad avere divertimento se non degenerando nell’illegalità? Stupri, furti, liti finite gravemente, lesioni a beni comuni, e l’elenco potrebbe continuare. I fatti di cronaca sono all’ordine del giorno ma ciò che fa riflettere ancor di più sono le reazioni dei genitori, che accorrono in aiuto dei propri figli continuando a reiterare la disfunzionalità e ad indicare la via sbagliata.

Su tale aspetto ci può aiutare a comprendere meglio queste dinamiche il libro della Psicanalista Laura Pigozzi, Mio figlio mi adora, nel quale leggiamo uno dei concetti portanti sulle relazioni genitori-figli. La dott.ssa Pigozzi dice che i genitori dovrebbero dare il minimo ai figli, il poco che davvero conta, invece di dar loro il massimo; dovrebbero sapersi contenere.

Una guida, quando è per sempre, rende ciechi.

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