Ancora pochi minuti e le uova sarebbero state cotte a puntino. Con un sorriso più che soddisfatto, Irene infilò appena la spatola sotto un lembo di albume solidificato e pensò che non si sbagliava mai: le uova all’occhio di bue erano proprio la sua specialità. Il tuorlo restava sempre perfettamente tondo e liscio, sembrava fatto di plastica. Tutti quelli a cui le cucinava glielo facevano notare con grande stupore. Tolse la padella dal piano cottura, prese un piattino e ci appoggiò sopra l’uovo con disinvoltura. Lo condì con abbondante sale e pepe e solo dopo le venne in mente di girare la manopola per spegnere il gas. Poi si avvicinò al forno per controllare la cottura delle patate. Aprì appena lo sportello, poi si ricordò che doveva mettersi il guantone, altrimenti si sarebbe scottata. Lo trovò per terra, vicino alla lavastoviglie. Lo raccolse, se lo infilò e constatò che sì, le patate erano cotte. Prese con attenzione la teglia e ne versò alcune nel piatto accanto all’uovo. Prese la bottiglia del kech… check… ketchup, la scosse e la spremette sopra al piatto. Si sistemò con una mano il cerchietto, che le era sceso sugli occhi col movimento, e si girò verso la tavola. Quattro occhi la stavano fissando affamati. Appoggiò il piatto di fronte ad Alice e tolse il coltello che aveva sbadatamente lasciato appoggiato sul suo tovagliolo. Solo gli adulti potevano tenere il coltello a tavola.
– So che hai fame, ora è pronto. Tieni. Soffia prima di mangiare, che scotta. E mastica bene, mi raccomando. Ora arrivo da te, Bianca.
Si voltò verso l’altro lato del tavolino, dove la piccola, come la chiamava lei, reclamava le sue attenzioni. Prese il biberon bianco-giallastro, che aveva già preparato sul tavolo, e lo avvicinò alle labbra di Bianca. La guardò con occhi dolci e incoraggianti.
– Tienilo tu in mano, che sei capace.
Sistemate le bambine, fece per sedersi sulla terza sedia rimasta libera ma il suo fianco sfiorò qualcosa di morbido. Il gatto stava rannicchiato contro lo schienale. Lo fece scendere e finalmente si sedette e iniziò a giocare con le pieghe che si formavano sul grembiule. Era beige con delle farfalle rosa e viola stampate sopra. Le piaceva tantissimo. Glielo avevano regalato e lo indossava ancora più volentieri da quando le era arrivata la cucina nuova. Prima, se lo ricordava bene, i mobili erano fatti praticamente di cartone ed erano sempre da aggiustare. Adesso, invece, aveva tutto quello che potesse desiderare: il gas, il forno, un piccolo frigorifero. Persino pentole, mestoli e stoviglie erano inclusi nel pacchetto, così come il servizio da tè rosso a cuori bianchi a cui stava attentissima. Una volta le era caduta una tazzina. Era praticamente rimbalzata a terra senza rompersi, e Irene aveva tirato un sospiro di sollievo. Se si fosse rotta, come avrebbe fatto a offrire il caffè a zia Rosa quando veniva a trovarla? Pensando a lei, le tornò in mente che aveva ancora la sua valigetta, quella bianca liscissima con la croce rossa verniciata sopra. Arrossì anche lei, perché sapeva che gliel’avrebbe dovuta restituire. D’altra parte, finché lei non gliel’avesse chiesta, Irene pensava che se la sarebbe potuta tenere. Dentro c’era tutto l’occorrente di base per il pronto soccorso: termometro, stetoscopio, misuratore della pressione, siringhe, disinfettante e cerotti. Avrebbe voluto diventare infermiera, proprio come zia Rosa, e per questo si era fatta prestare il suo vecchio kit, per fare un po’di pratica. Non sembrava troppo difficile. Spesse volte controllava la pressione di Alice e di Bianca per vedere se era tutto ok. Se avevano la tosse, ascoltava il loro respiro tramite il tubo dello stetoscopio. Se piangevano e sentiva che avevano la fronte calda, misurava loro la febbre. Se avevano mal di pancia, beh, lì la faccenda era più delicata, ma spesso bastava fare loro un massaggio e sarebbe passato tutto. E se cadevano e si sbucciavano, o se si graffiavano coi rametti che talvolta portava a casa perché ci giocassero, le disinfettava minuziosamente e sceglieva per loro cerotti colorati. E a volte era incredibile perché tutte queste cose potevano accadere nella stessa giornata. C’era sempre qualcosa da fare. Ogni tanto il pensiero di diventare infermiera la stancava, e allora decideva che avrebbe continuato a dedicarsi all’arte. Se la cavava già benissimo. Le pareti della sua cucina erano piene di disegni che aveva fatto lei, e in un angolo del tavolo c’erano sempre fogli e matite sparse. Le piaceva soprattutto rappresentare fiori e animali, ma anche ritrarre le persone a cui voleva bene. Le sue bambine, i suoi genitori, le sue sorelle e i suoi fratelli, le zie e gli zii. Generalmente regalava i ritratti ai rispettivi soggetti, ma alcuni di questi li teneva e li appendeva. Lì, nella sua cucina, circondata dallo sguardo disegnato dei suoi cari, si sentiva semplicemente felice. E non aveva altro da dire su questa faccenda.
Non fece in tempo ad accorgersi del suo arrivo, che vide spuntare il volto di sua mamma da una delle finestre.
– Toc toc!
Disse lei, coi capelli in parte penzolanti sopra al davanzale, in parte trattenuti dalle tendine verdi coi brillantini.
– Le polpette sono pronte, signorina.
Irene scattò in piedi entusiasta lanciando un grido di euforia. Le polpette della sua mamma erano le più buone del mondo. Si precipitò fuori dalla casetta senza neanche togliersi il grembiule urtando col piede il gatto di peluche accoccolato per terra e lasciando sul tavolo l’uovo e le patate di plastica che le sue bambole non avevano mangiato.