Andare sulla fune è vivere,
tutto il resto è aspettare.
Karl Wallenda
Passando di là, nonostante il tempo trascorso, si può ancora vedere. Certo, ci vogliono occhi attenti, ma scrutando tra i rovi e una siepe incolta e disordinata, appare un uomo in piedi, leggermente curvo in avanti, proteso verso l’orizzonte, evidentemente in attesa. È fatto di quella pietra bianca che il tempo scurisce e ricopre di striature di diversi toni di grigio. Una scultura di umile fattura, nessuna pretesa artistica, eppure capace di una forza comunicativa dalla quale è difficile distogliere lo sguardo. La curva a gomito della strada ai cui margini è situata consente di cogliere il gesto quasi-vivo che evoca un complesso di sentimenti: ansia, preoccupazione, desiderio, curiosità, rassegnazione, illusione, delusione, paura, indignazione, rinvio all’istante successivo, riattivazione della speranza, inquietudine, tensione, progetto, capacità di aspettare, disposizione a cogliere il momento e ancora altro, indefinibile e indecidibile che l’attesa richiama e si porta con sé. Della sua attesa, quella di quell’uomo che per sempre se ne sta fissato nell’atto di attendere, si narra che avesse trascorso anni e anni della vita a scrutare l’orizzonte aspettando il ritorno della sua amata. Aveva aspettato in quella posizione e con quella postura sapendo con certezza che non sarebbe mai più tornata. Non avrebbe potuto farlo. L’aveva perduta per sempre. Questa certezza però non aveva fatto altro che rinforzare la posizione dell’uomo al punto di prevedere, con l’aiuto di uno scalpellino locale, la realizzazione di una statua che lo confermasse nella continuità dell’attesa anche dopo la propria morte. E ancora attende, con lo sguardo fisso verso il nulla quello che mai arriverà.
Forse proprio questa è l’attesa allo stato puro: non la tensione verso qualcosa che si risolve in una forma di soluzione o soddisfazione che in qualche modo somigli a quel che si stava attendendo, ma l’attesa di qualcosa o di qualcuno che certamente non arriverà. Soprattutto perché la soluzione sarebbe non la soddisfazione, se non provvisoria e illusoria, ma la dissolvenza del valore di quel che si stava attendendo. È vero che Orfeo perde Euridice perché non sa attendere e si volta a guardarla, ma nessuno sa come sarebbe andata, se avesse aspettato, vedendola. Non si può escludere la delusione che avrebbe, forse, dissolto l’incanto.
Da questo punto di vista non basta neppure la lezione di metodo storico che da par suo ci indica Carlo Ginzburg quando dice: «Trovare quello che si cerca non è sufficiente. Dobbiamo lavorare su quello che non ci aspettavamo». Rimane là in fondo, o lassù in alto, o di lato l’inconoscibile e ci ricorda che l’attesa, quella che ci muove verso la conoscenza non è esauribile.
Anche secondo il finissimo dubbio del poeta di Recanati, «il più gradito giorno» è quello che «precorre» la festa, il sabato, appunto.
«Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia […]
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.»
Altrettanto impegnativa si mostra un’altra variante della soluzione dell’attesa, come accade quando non si verifica quel che addirittura si temeva accadesse, quel che suscitava ansia e paura:
«Perché d’un tratto questo smarrimento
ansioso? (I volti come si son fatti seri)
Perché rapidamente le strade e piazze
si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi?
S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti.
Taluni sono giunti dai confini,
han detto che di barbari non ce ne sono più.
E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente.»
C. Kavafis, Poesie, Oscar Mondadori editori, Milano, 1961. A cura di Filippo Maria Pantani.
L’attesa è un’apertura verso l’ignoto. Se il suo esito fosse certo non si tratterebbe di attesa. È allora una ferita nel tempo, una ferita che attraversa il corpo e lo modella mentre lo protende verso un epilogo imprevedibile, strenuamente ritenuto probabile ma per nulla determinabile. A scrutare nello spazio angusto dell’apertura verso quello che non si sa se accadrà, non si vede nulla. Ogni piega sembra un sintomo ma presto si dissolve in una forma che rientra su sé stessa e quello che ci si attende che appaia non si manifesta.
Più di tutto può l’ombra, che sembrerebbe far intravedere; che abbozza un confine tra l’ignoto e il palese; che attrae e seduce, ma allo stesso modo delude. La curvatura dell’ombra non solo non concede alcuna epifania, ma magnetizza, fino quasi alla paralisi, lo sguardo di chi attende. Per un chiaro che appare, gli risponde uno scuro che nega ogni concessione. Perché chiaroscuro è il sentimento dell’attesa, luce immaginata e prevista e buio repentino che presenta il conto all’illusione. Se è un taglio, un’apertura verso il possibile, si impone allo stesso tempo come un attraversamento tanto angusto da risultare impossibile. Appassiona chi la vive e per questo ne ha di ragioni Lucio Fontana a renderla con il rosso; ma proprio perché coinvolge le passioni è dolore e sofferenza. Certamente non ha nulla di passivo e si connette più che ad altro all’inquietudine, all’impazienza e perché no all’indignazione.
Lo sguardo di chi attende attrae, fino a volerlo assorbire, il mondo atteso. Magnetico e travolgente si perde però nel vuoto che non sembra rispondergli. Anche se allucina quel che cerca, sa, senza dirselo, che non si manifesterà. Un Narciso senza Eco implode nel proprio aspettare. Nella valle di quel silenzio anche un urlo non risuona. A chi domanda che cosa stia aspettando quello sguardo non è in grado di rispondere se non che esistere è aspettare.
Sono gli annunci a preparare le attese. Dalle promesse si muove il passo di chi si dispone alle aspettative che si autoalimentano e sono crescenti. Così che l’ossimoro con cui si disegna un’attesa passiva appare più che altro derivante da forme unilaterali di concessione che minorizzano chi rinuncia ad agire e, quindi, a sé stesso. Spesso intere comunità sociali che aspettano di essere assistite, avendo smarrito la propria forma vitale. Gli stessi annunci, allora, possono attivare o passivizzare, a seconda di chi li emana e di come li emana, e degli scopi emancipativi o manipolatori che intende perseguire. La potenza di un annuncio sta probabilmente proprio nell’attesa che attiva.
Figli di nove mesi di attesa, non sappiamo che una volta concepiti e nati siamo candidati ad una più lunga attesa, quella di concludere il percorso esistenziale non conoscendo il giorno né l’ora.
Come mostra Wilfred R. Bion ne La lunga attesa, (Astrolabio Ubaldini, Roma 1986), se riavvolgiamo il film di una vita non ha alcuna rilevanza che i ‘fatti’ della memoria corrispondano a fatti oggettivi. Coerentemente con i suoi intenti, Bion racconta dei fatti oggettivi ma, avverte, quei ‘fatti’ vanno presi solo come ‘memorie’, di cui uno psicoanalista conosce bene la dimensione fantasmatica. E tuttavia, la verità psicoanalitica stessa non verrà mai narrata nei suoi termini, ma solo attraverso quei fatti. Ne emerge una storia con memoria che traccia la parabola di un’attesa, l’evoluzione della vita stessa.
«Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio». Ecco come si prepara l’attesa!
Con l’incipit di Cent’anni di solitudine, in due righe esplode l’embrione fecondo che terrà col fiato sospeso lungo tutto il libro. Non è da meno l’operazione di Victor Hugo, con L’ultimo giorno di un condannato. Mentre il tempo scandisce l’avvento della fine, è proprio l’attesa a dominare la scena interiore ed esterna di un’esperienza estrema.
Quel tempo che passa così in fretta è lo stesso che fugge via, nel senso che non passa mai, fino a dileguarsi nell’attesa senza esito e nell’angoscia, come accade nella Fortezza Bastiani de Il deserto dei tartari di Dino Buzzati.
Sarà in Fratelli di Carmelo Samonà, che l’attesa interrotta dal gesto di toccarsi, dopo sospensioni e infiniti tentativi, finisce per tradire e deludere l’estetica della distanza. Proprio l’incapacità di distanza depotenzia l’attesa in passività. Quel che mostra Paul Virilio in Negative Horizon: An Essay in Dromoscopy, [London: Continuum, 2005] riguarda gli effetti, accanto ai suoi supporti tecnologici, della velocificazione complessiva dei modi di vivere, che coinvolgono soprattutto la nostra sensibilità, la nostra intelligenza e capacità di comprensione della realtà.
L’attesa si associa così alla capacità di rimanere aperti e permeabili, porosi verso gli altri e il mondo, in una sintesi che solo i poeti riescono a fare, cioè alla capacità negativa: «intendo dire la capacità negativa e cioè quando un uomo è capace di stare nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione […] perché incapace di rimanere appagato da una mezza conoscenza», scrive John Keats (La valle dell’anima. Lettere scelte 1815-1820, Adelphi, Milano 2021).
Attendere è probabilmente cercare quella «condizione di completa semplicità che costa non meno di tutto» (T. S. Eliot).