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«È proprio dell’uomo attendere»

Autore

Paolo Fedrigotti
Paolo Fedrigotti (Rovereto, 1981) si è laureato in filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi su Dante e la filosofia medioevale. Si è specializzato nell’insegnamento secondario presso la Ssis della Libera Università di Bolzano. Ha conseguito il baccellierato in Sacra Teologia presso lo Studio teologico accademico di Trento. Nella stessa città è docente di storia della filosofia e di filosofia della conoscenza ed epistemologia all’Istituto teologico affiliato e all’Istituto di scienze religiose, nonché di filosofia e storia nei licei di Riva del Garda. È membro della Scuola di Anagogia di Bologna e autore di numerosi articoli specialistici e monografie.

Un invito alla lettura delVisconte dimezzato a partire dalla trascendentalità dell’attesa.

Leggere Calvino equivale ad accostare un’esperienza culturale e umana innanzi alla quale non si può restare indifferenti: la sua prosa, capace di impastare gli slanci e le incongruenze dell’immaginifico con la cruda ruvidità del quotidiano, rappresenta un luogo spirituale in cui ciascuno è chiamato a rispecchiarsi per approfondire la conoscenza di sé e sperimentare così l’apertura sconfinata delle proprie aspirazioni. La cosa è vera – anche a cent’anni dalla nascita dell’autore sanremese e a quasi quaranta dalla sua morte – soprattutto per le sue opere più apparentemente disimpegnate, nelle quali quella che può superficialmente apparire come una negazione del tangibile o una fuga scanzonata dal concreto si rivela – mediante un libero, inebriante gioco ermeneutico – come una profondissima apertura al reale e alla sua intima essenza. 

Appartengono a quest’ordine di scritti tre celebri opere di Italo Calvino, pubblicate negli anni Cinquanta: Il Visconte dimezzato, Il Barone rampante e Il Cavaliere inesistente. Si tratta di tre fiabe atipiche, tre storie che – dando vita ad un vero e proprio ciclo – hanno in comune il fatto di essere inverosimili e di svolgersi in epoche lontane e in paesi immaginari.1 Il primo tassello della trilogia ad essere dato alle stampe è Il Visconte dimezzato, redatto nel 1951. La sua vicenda, d’ambientazione settecentesca, è presto riassunta. Essa si sviluppa a partire dall’antefatto che determina in toto il prosieguo del libro: durante una battaglia combattuta su suolo boemo contro i Turchi, il nobile Medardo di Terralba viene colpito in pieno petto da una palla di cannone. Salvato insperatamente dai medici di campo, egli si ritrova dimezzato. Rientrato dalla guerra a causa della propria infermità, Medardo comincia a comportarsi in modo strano: gli abitanti del suo feudo si accorgono di come ogni suo gesto, ogni sua decisione, siano ispirati ad un’illogica quanto sorprendente cattiveria. Il cinismo e la crudeltà del visconte si scaricano sul vecchio padre Aiolfo e sulla sua passione per i volatili, e non risparmiano persone, frutti, fiori e funghi. La cattiveria di Medardo non ha riguardi per nessuno: colpisce persino l’anziana balia Sebastiana che, pur scampando ad un incendio appiccato dal visconte al suo stesso maniero, viene accusata d’essere, a motivo della pavidità compiacente del dottor Trelawney, una lebbrosa. I fatti di corte s’intrecciano con il vissuto dei personaggi che abitano il contado: nei racconti del narratore, un orfano che si scoprirà essere il nipote del protagonista, incontriamo i diffidenti e silenziosi ugonotti di Col Gerbido, i lebbrosi di Pratofungo e una ragazza, Pamela, di cui il visconte decide d’innamorarsi. All’improvviso qualcosa muta: ci si accorge di come il nobiluomo, temuto ed odiato, cominci a dimostrarsi gentile e buono. Lo sconcerto iniziale lascia presto spazio ad una certezza: a Terralba è rientrata anche l’altra metà del visconte, quella buona evidentemente, la parte che si riteneva esser stata distrutta dalla cannonata boema. Inizialmente il nuovo stato di cose rallegra la gente: la cattiveria del Gramo sembra bilanciata dagli slanci caritatevoli del Buono. Gradualmente però lo stile di quest’ultimo risulta stucchevole, noioso, pedante. La svolta arriva con l’innamoramento di Pamela anche da parte del Buono: le due parti del visconte, contendendosi la ragazza in duello, si battono all’ultimo sangue riaprendo vicendevolmente le cicatrici dell’antica ferita. Trelawney interviene nel tentativo estremo di salvare la vita alle due metà ricongiungendole: Medardo torna quello che era prima di partire con le truppe imperiali alla volta della guerra. 

Considerare la trama del Visconte dimezzato è semplice; molto complesso è, invece, valutarne la simbologia: l’uso delle immagini che ne popolano l’orizzonte – gioco del denso con il denso – ci sfida ad intenderne l’intrinseca verità. Essa va senz’altro focalizzata a partire dalla cifra del dimidiamento e dallo sfondo che segna l’universo di Medardo: uno scenario lacerato, in cui tuttavia il non senso nel quale i personaggi vagano, brancolando nel buio, sembra non voler cedere il passo ad un’oscurità assoluta e definitiva; un orizzonte, ancora, in cui nulla ha importanza ma nel quale ogni cosa mira a rivendicare il proprio valore. Nella contea di Terralba, nessuno vuole rassegnarsi all’idea che un significato ultimo non ci sia (come accade, in definitiva, anche per i tanti, inconsapevoli nichilisti spuri che popolano la società postmoderna, i quali – in maniera irriflessa – desiderano incoerentemente il nulla non come non-essere ma come una forma dell’essere2): ciascuno sembra galleggiare in uno stato di attesa permanente per quanto indeterminato. Se ne ha conferma raggiungendo il cuore del romanzo ed intercettando la frase che Calvino mette in bocca ad Ezechiele, uno degli abitanti di Col Gerbido, la quale funge da baricentro di tutta l’opera: «È proprio dell’uomo attendere»3, dice l’anziano ugonotto. 

Esprimendo la portata trascendentale dell’attesa, tale proposizione basta da sola a comprovare la dinamicità speculativa del Visconte dimezzato e a testimoniare quanto si diceva in apertura circa la capacità calviniana di stimolare la meditazione del suo lettore. L’autore ligure ha ragione nel tratteggiare l’attendere – dal latino ad-tendere, ossia tendere a – come una cifra peculiare dell’umano. Esistere senza attendere è impossibile, come lo è vivere senza desiderare. Le due polarità vanno considerate insieme, poiché l’attesa dell’uomo non si potrebbe dare se il desiderio (inteso come apertura trascendentale intenzionalmente infinita perché proiettata ad un compimento di felicità perfetto, non solo in termini qualitativi, ma anche eterno e stabile) non ne fosse il nucleo fondante. Il desiderio – dico – non il bisogno o la voglia, per quanto le tre dimensioni siano imparentate tra loro. Mentre il bisogno è determinato quanto al suo oggetto, il desiderio rivela la tensione dell’intera esistenza dell’essere umano. Scrive Roberto Mancini:

«Il desiderio, nel superare il bisogno, lo ospita in sé come forza tensionale. La necessità esperita nel bisogno è quella per cui viviamo di qualcosa. Senza questa radicalità i desideri sarebbero meri capricci. Ogni bisogno fondamentale della persona possiede, del resto, una complessità irriducibile allo schema mancanza – soddisfazione – estinzione del bisogno stesso. I bisogni di radicamento, di protezione, di integrazione, di movimento, di rinnovamento coinvolgono lo strutturarsi delle relazioni e l’elaborazione, da parte del soggetto dell’esperienza di sé. Inoltre, il bisogno insegna al desiderio la quotidianità. Il ritmo temporale dell’esistenza che va dalla tensione al riposo, dall’impegno alla stanchezza alla rigenerazione, spinge la facoltà di desiderare all’apprendimento della perseveranza e della fedeltà. D’altra parte, il desiderio può offrire orientamento alla stessa elaborazione dei bisogni, farli convergere verso l’unità dell’essere personale. È così che viviamo non solo di pane, ma anche del senso, del bene, dell’amore, degli altri valori scoperti e voluti dal desiderio. (…) Credo che in linea generale si possa comunque precisare il significato essenziale dell’unione dialettica tra questi due termini: il bisogno è il luogo di gestazione del desiderio. Quando il seme che il desiderato pone in noi incontra almeno uno dei nostri bisogni fondamentali (…) allora esso può prendere dimora in maniera da maturare con una forza che coinvolge tutto il nostro essere».4

Il desiderio va poi distinto dalla volontà. Desiderare qualcosa non è lo stesso che volere qualcosa. Si può desiderare qualcosa senza volerlo; non vale tuttavia l’affermazione reciproca, giacché non si può volere qualcosa senza averlo desiderato. 

«La volontà – dichiara Carmelo Vigna – è una forma intenzionale interna alla vita del desiderio. Specifica la natura del desiderio, perché importa una decisione operativa rispetto all’oggetto desiderato. Chi vuole qualcosa, decide non solo di tendere a quella cosa, ma decide pure contestualmente, anche se a volte solo implicitamente, una serie più o meno complessa di pratiche, ossia di azioni per conseguire il proprio impegno.  La volontà si segnala rispetto al desiderio per una sorta di riflessività: la volontà può infatti, volere di volere e non volere di volere (che è cosa diversa dal volere di non volere) (…) Essa contiene la possibilità dell’esercizio attivo del negare sino all’auto-negazione. In altri termini, il desiderio, in quanto tale, non riesce a dire di no all’oggetto conveniente. Dall’oggetto è come calamitato».5  Ebbene, tramite le pagine del Visconte dimezzato riusciamo a capire come la nostra vita terrena sia costantemente segnata dall’attesa – dal primo momento fino al suo ultimo istante – perché intessuta sull’ordito di un desiderio di felicità infinito e che, almeno nel tempo in cui ci è dato di vivere (proprio per la caducità di tale tempo) non può essere, per definizione, saturato6. Sembra strano parlare d’infinito e riferirsi ad una realtà limitata come quella dell’uomo; eppure il suo desiderio e l’attesa che ne consegue possono essere pensati solo in funzione di tale disequazione, ponendosi come l’orizzonte entro cui l’infinità intenzionale dell’umano – per dirla in maniera un poco tecnica – si scopre depotenziata per la referenza onticamente limitata del suo essere e, simultaneamente, il suo contenuto ontico, limitato per natura, viene rinvigorito dall’oltrepassamento del finito da parte della corsa intenzionale che anima la sua coscienza7. Torna alla mente la definizione che nella Malattia mortale, Kierkegaard dà dell’uomo come rapporto di finito e infinito, come rapporto bipolare che si rapporta a se stesso e che, rapportandosi a se stesso, si rapporta all’Origine che lo costituisce8. Certo, l’Origine a cui qui ci si riferisce non è un Quid che, nel nostro status viatorum, ci si offra in modo esplicito ma in maniera apocalittica: il Logos, come attesta Eraclito, ama nascondersi9 e pretende la nostra attesa per non chiudere la vita umana in un circolo di asfittica necessità e difenderne così la libertà, affidando la posizione di ogni evento esistenzialmente decisivo ad un atto di fede e a quel salto trans-razionale che va sotto il nome di de-cisione10.

NOTE

1. I. Calvino, I nostri antenati, Mondadori, Milano 2011, p. 409.
2. V. Jankélévitch, Trattato delle virtù, Garzanti, Milano 1987, p. 235.
3. I. Calvino, I nostri antenati, p. 66.
4. R. Mancini, Godimento e verità. La vocazione metafisica del desiderio, in Metafisica del desiderio, a cura di C. Ciancio, Vita & Pensiero, Milano 2003, p. 12.
5. C. Vigna, Etica del desiderio umano, in Introduzione all’etica, a cura di C. Vigna, Vita & Pensiero, Milano 2001, p. 121.
6. Cfr. B. Pascal, Pensieri, opuscoli, lettere, Rusconi, Milano 1978, n. 370, p. 535: «[…] E così il presente non ci appaga mai, l’esperienza ci inganna e, di sventura in sventura, ci conduce fino alla morte, che ne forma un culmine eterno. Cosa dunque ci gridano queste avidità e quest’impotenza, se non che un tempo ci fu nell’uomo una vera felicità, di cui gli restano ora solo il segno e la traccia tutta vuota, e che egli tenta inutilmente di riempire con tutto ciò che lo circonda, chiedendo alle cose assenti l’aiuto che non ottiene dalle presenti, mentre tutte ne sono incapaci, perché quell’abisso infinito può essere colmato soltanto da un oggetto infinito e immutabile, cioè da Dio stesso?».
7. C. Vigna, Desiderio e metafisica, in Metafisica del desiderio, a cura di C. Ciancio, Vita & Pensiero, Milano 2003, pp. 26-27.
8. Cfr. S. Kierkegaard, La malattia mortale, in Le grandi opere filosofiche e teologiche, Bompiani, Milano 2013, p. 1665.
9. Cfr. Eraclito, Frammenti, a cura di F. Fronterotta, Bur, Milano 2013, fr. 60, p. 229.
10. Cfr. V. Melchiorre, Breviario di metafisica, Morcelliana, Brescia 2011, p. 130.

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