Almeno questa è stata la mia sensazione poco prima che la vivessi davvero. Non essendoci anarchici in città facevo politica con altri piccoli gruppi di matrice libertaria e verso la metà degli anni ’70 scrissi addirittura un documento, dicendo appunto: «La rivolta è nell’aria».
Ci presi perché un anno o due dopo scoppiò la rivolta del ’77 bolognese e qualcuno disse che avevo fiuto politico. In realtà avevo soltanto sentito che qualcosa stava maturando. Nelle case, in piazza, all’università, sempre più spesso succedeva qualcosa che non saprei neppure definire. Imprese pensate lì per lì. Dei ragazzi finivano in ospedale intossicati dalla mensa universitaria? Si andava a mangiare, travestiti da signori, nei ristoranti di lusso. Piccoli gruppi che però suscitavano molte simpatie tra gli studenti. Avevamo voglia di ribellarci, e naturalmente vari teorici ci spiegavano perché, senza trovare un grande ascolto. Partivano cortei a mezzanotte, di poche centinaia di persone, a volte ci si azzuffava con la Celere. Non c’era un perché in quei cortei notturni. Eravamo quasi tutti fuori sede, ma c’erano anche parecchi bolognesi, spesso legati a gruppi della sinistra rivoluzionaria. Qualcuno distruggeva una macchina parcheggiata lungo il percorso, qualcun altro faceva scritte dadaiste sui muri e sulle fiancate dei bus. Anche se può sembrare assurdo quando mi trovai immerso nella rivolta, quella vera, di botte, molotov, con un morto sparato dai carabinieri, non avrei saputo dire perché ero lì con tutta quella rabbia dentro. Né io né i miei amici lottavamo per un’ideologia, per realizzare un sogno. Non chiedevamo assolutamente niente. Perché era impossibile qualunque rivendicazione, nessuna richiesta veniva inoltrata alle autorità, nessuna dichiarazione se non frasi assurde e incomprensibili, tipo “vogliamo l’impossibile”. Ci sentivamo inutili, senza futuro, illusi da un boom che stava perdendo i suoi ridicoli e superficiali contenuti: il mutuo per la casa, il lavoro fisso, il baraccone odioso dello Stato, che ai nostri occhi era soltanto una gigantesca associazione per delinquere. A un certo punto l’avremmo fatta a pezzi volentieri, la città, e infatti bloccammo le comunicazioni ferroviarie tra il nord e il sud per diverse ore. Una rabbia collettiva che non si giustificava soltanto con lo spirito di vendetta per un amico ucciso. La rivolta esplode quando il presente diventa impossibile. Adesso avrei forse ancora più motivi per ribellarmi, e anche tante persone che conosco ne avrebbero: perché non ci ribelliamo? Perché non blocchiamo tutto? Perché non fermiamo questa macchina silenziosa e infernale che ci circonda? Forse perché siamo più colti e più vecchi. Non crediamo neppure nella rivolta. Qui c’è il confine dell’inquietante nichilismo, quello vero, oscuro, profondo, che per vie traverse domina tutti i grandi sistemi di pensiero del mondo. Il signore del pensiero, così volevo intitolare il libro sul nichilismo che non scriverò.
Non mi ribello perché ho troppe cose da chiedere e so che non avrò risposte. La ribellione che implode è la più sanguinaria e spietata perché ci rende irraggiungibili. Dalla televisione percepiamo per caso strane espressioni (la parola riforma, per esempio, seguita da inutili precisazioni: della pubblica amministrazione, della scuola, della sanità, addirittura della RAI…) e a velocità supersonica cambiamo canale e ci fermiamo sulla vita del babbuino. Che ridicoli questi umani. Le loro parole non significano niente, le loro ideologie sono di plastica, comprese le apparentemente rivoluzionarie. Stiamo per assistere al più grande ladrocinio della storia italica: così leggiamo i finanziamenti del PNRR. Basti guardare le loro città, destinate a varie forme di malavita (case milionarie a centinaia di migliaia – ma chi sono gli acquirenti?). Ai giovani vorrei dire “ribellatevi” perché anch’io mi sono ribellato a suo tempo e non sono affatto pentito. Ma alla fine il consiglio (inutile come tutti i consigli) resta il vecchio: Jatevenne! E infatti lo stanno facendo da anni. Con la consapevolezza che il paradiso non esiste su questa terra. Coltiveranno l’orgoglio della loro intelligenza, saranno per sempre degli estranei, la nuova nobiltà errante che non avrà nessuna patria da ringraziare. Questi giovani nomadi sono il meglio del nostro paese, gli esuli della modernità: soltanto loro sono il paese in cui mi riconosco.