Nel luglio del 1969, due allievi di Don Lorenzo Milani, Maresco Ballini e Michele Gesualdi, contribuirono ad animare un congresso nazionale molto combattuto nella Cisl. Fu un’assise, dagli esiti imprevisti, vissuta a valle delle temperie delle proteste studentesche e a pochi mesi dall’autunno caldo operaio, tanto che i lavori furono aperti dall’allora segretario generale Bruno Storti con una celebre e inattesa relazione intitolata: Potere contro potere.
Quel congresso, dirompente per la confederazione cislina e per l’intero movimento sindacale italiano, si concentrò sui temi dell’autonomia, dell’incompatibilità tra incarichi sindacali e politici, e dell’unità tra le confederazioni. Quest’ultima, vista con grande sospetto sia dalla Democrazia Cristiana che dal Partito Comunista, destinata a rimanere tema irrisolto fino ad oggi.
Ballini e Gesualdi “figli” delle due esperienze educative di Don Milani a Calenzano e Barbiana, erano divenuti, dopo essere passati dal Centro Studi Cisl di Fiesole, giovani sindacalisti tra i lavoratori tessili. Entrambi testimoniavano in prima persona quello che, solo due anni prima, il priore e i suoi ragazzi avevano scritto in Lettera a una professoressa: «Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. In questo secolo come si vuole amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola?».
Al centro dell’intervento congressuale di Gesualdi la questione dell’emancipazione attraverso un’educazione popolare, non gerarchica e classista, di quello di Ballini la necessità, per il sindacato, di: «mettersi a fianco dei lavoratori diseredati che devono essere preferiti a quelli privilegiati».
Quasi cinquant’anni dopo, nel corso del 2017, due momenti molto significativi, legati a papa Francesco, si sono intrecciati nel giro di pochi giorni. Il 28 giugno, infatti, il pontefice incontrava i delegati del congresso confederale della Cisl in Vaticano; esattamente una settimana prima compiva, dopo aver sostato a Bozzolo sulla tomba di don Primo Mazzolari, il suo pellegrinaggio a Barbiana, nel luogo di esilio in cui la Chiesa aveva esiliato don Lorenzo Milani. In mezzo a questi due momenti, il 26 giugno, ricorreva il cinquantesimo della scomparsa del priore.
A Barbiana, papa Francesco, dopo aver salutato gli ex allievi, aveva esordito così:
«La scuola, per don Lorenzo, non era una cosa diversa rispetto alla sua missione di prete, ma il modo concreto con cui svolgere quella missione, dandole un fondamento solido e capace di innalzare fino al cielo. E quando la decisione del Vescovo lo condusse da Calenzano a qui, tra i ragazzi di Barbiana, capì subito che se il Signore aveva permesso quel distacco era per dargli dei nuovi figli da far crescere e da amare.
Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole.
Questo vale a suo modo anche per i nostri tempi, in cui solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti e spesso confusi messaggi che ci piovono addosso, e di dare espressione alle istanze profonde del proprio cuore, come pure alle attese di giustizia di tanti fratelli e sorelle che aspettano giustizia. Di quella piena umanizzazione che rivendichiamo per ogni persona su questa terra, accanto al pane, alla casa, al lavoro, alla famiglia, fa parte anche il possesso della parola come strumento di libertà e di fraternità».
Si è scritto tantissimo su don Milani e su Barbiana, tanto che appare tutt’altro che semplice, a cento anni della nascita del priore, aggiungere parole nuove, non scontate.
Eppure il rapporto tra don Lorenzo e la sua scuola nei confronti del sindacato e, più in generale, dei temi del lavoro, non è tra i più studiati; rimane ancora molto da comprendere, da condividere, da far riverberare, da dirci insieme e, soprattutto, da «reinventare» nel tempo di oggi e in quello di domani.
Don Milani e il suo rapporto con il lavoro e il sindacato sono i temi conduttori di: Quel filo teso tra Fiesole e Barbiana, un volume collettivo, oggi giunto alla terza edizione e pubblicato da Edizioni Lavoro.
La nuova edizione di questo testo viene oggi pubblicata proprio in occasione del centenario della nascita di Don Lorenzo Milani.
Se la prima edizione si era concentrata prevalentemente sui temi dell’emancipazione mediante il sapere attraverso Lettera a una professoressa (trattando anche dell’influenza di Don Lorenzo e dei suoi allievi sulla stagione delle 150 ore per il diritto allo studio negli anni Settanta), la seconda si è soffermata sull’approfondimento de L’obbedienza non è più una virtù, sempre avendo come punto di riferimento il mondo del lavoro e la sua rappresentanza.
La terza edizione, pubblicata, come detto, a cento anni dalla nascita di Don Milani, vuole provare a porre e porci alcune domande proprio sulla scia di Don Lorenzo e dei suoi allievi diventati sindacalisti in un secolo, il Novecento, ormai completamente archiviato.
Come si cura, include, organizza, rappresenta il “lavoro fragile” in tempi di antico e nuovo sfruttamento? In che modo si riconnettono oggi le solitudini del lavoro nelle campagne del caporalato come nel mondo turbocapitalistico delle piattaforme digitali?
Tornando al contesto storico sottostante a questi temi e a questi interrogativi, è importante soffermarsi sulla ricchezza e sulla peculiarità del fortissimo legame che c’è nel percorso sociale ed educativo di Don Milani con il lavoro e la sua rappresentanza.
Sono tanti, ad esempio, i contratti di lavoro presenti nella canonica in cui i ragazzi facevano scuola.
Il primo testo pubblico a noi conosciuto di Don Milani è del 1949 nella rivista “Adesso” di Don Primo Mazzolari.
L’articolo racconta di Franco, giovane disoccupato di Calenzano. Don Milani si rivolge a lui con una frase fulminante: «Perdonaci tutti, comunisti, industriali e preti».
In questa frase si riassume mirabilmente la crisi profonda, l’inadempienza, la miseria del capitalismo, del comunismo e dell’istituzione ecclesiastica, le “ideologie” dominanti del tempo.
Tornando al rapporto con la Cisl e con il Centro Studi di Fiesole, Agostino Burberi, attuale presidente della Fondazione dedicata la priore di Barbiana, riporta nel libro l’immagine di Don Milani in lambretta che incontra il leader cislino Luigi Macario al Centro Studi di Firenze per perorare la causa di Maresco Ballini, che era destinato ad essere inviato nell’alto milanese e che Don Milani avrebbe voluto trattenere in Toscana, vicino alla madre del suo allievo, rimasta vedova.
Agostino, Paolo Landi, entrambi i fratelli Gesualdi ci raccontano del “filo” teso con il sindacato dei tessili, anche se non va dimenticato che, ad esempio, Michele Gesualdi incontra il sindacato in Germania. Paolo Landi, come tanti altri allievi e come tanti giovani italiani di oggi, va a lavorare a Londra. Francuccio Gesualdi si reca ad imparare l’arabo in Algeria.
Una dimensione cosmopolita, anche attraverso il lavoro, che è, appunto, di insegnamento anche per il tempo presente.
Scriveva Don Milani, da San Donato al regista francese Maurice Cloche nel 1952: «Il disoccupato e l’operaio di oggi dovranno uscire dal cinema con la certezza che Gesù ha vissuto in un mondo triste come il loro, che ha come loro sentito che l’ingiustizia sociale è una bestemmia, come loro ha lottato per un mondo migliore».
Se ci avviciniamo alla Lettera ai giudici, a L’obbedienza non è più una virtù, penso sia significativa la pubblicazione, nel libro, del documento dei lavoratori del nuovo Pignone e di altre aziende fiorentine a sostegno dei sacerdoti fiorentini che si erano pronunciati per l’obiezione di coscienza.
Ha affermato, alcuni anni fa, Franco Bentivogli, leader storico della Fim Cisl negli anni Settanta e, successivamente, segretario confederale della Cisl: «Don Milani sollecitava la promozione di un umanesimo planetario e i doveri della solidarietà e dell’accoglienza, assumendo il bene comune come obiettivo politico e sindacale concreto in un mondo di fratelli e senza confini».
Nello stesso intervento Bentivogli ha ricordato una frase di don Milani, molto significativa, tratta da Esperienze pastorali: «Non vedremo sbocciare dei santi finché non ci saremo costruiti dei giovani che vibrino di dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale. A qualcosa in altre parole che sia al centro del momento storico che attraversiamo, al di fuori dell’ingiustizia dell’io, al di sopra delle stupidaggini che vanno di moda».
Papa Francesco, in occasione del congresso della Cisl del 2017, si è soffermato sul rischio delle burocrazie organizzative e ha indicato le due sfide che interrogano oggi il sindacato: la profezia e l’innovazione.
Ha detto il papa: «La prima sfida è la profezia, e riguarda la natura stessa del sindacato, la sua vocazione più vera. Il sindacato è espressione del profilo profetico della società. Il sindacato nasce e rinasce tutte le volte che, come i profeti biblici, dà voce a chi non ce l’ha, denuncia il povero “venduto per un paio di sandali” (cfr. Amos 2,6), smaschera i potenti che calpestano i diritti dei lavoratori più fragili, difende la causa dello straniero, degli ultimi, degli “scarti”».
Risuonano tutte le parole di don Milani sul lavoro e sulla rappresentanza del lavoro.
Non so se, come sosteneva padre Balducci, don Milani a Barbiana «si sia calato a picco» o, invece, sia «salito dal pozzo», imparando a guardare con più profondità il cielo e le nuvole.
È a partire dal legame con gli ultimi che si rilancia una seconda sfida per l’esistere del sindacato e, infatti, papa Francesco, nel suo intervento, non si è fermato, proseguendo così:
«Seconda sfida: l’innovazione. I profeti sono delle sentinelle, che vigilano nel loro posto di vedetta. Anche il sindacato deve vigilare sulle mura della città del lavoro, come sentinella che guarda e protegge chi è dentro la città del lavoro, ma che guarda e protegge anche chi è fuori delle mura. Il sindacato non svolge la sua funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o è in pensione. Questo va fatto, ma è metà del vostro lavoro. La vostra vocazione è anche proteggere chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia».
Scriveva Giancarlo Zizola nel 1987 e le sue parole sono assolutamente attualissime: «Sono passati venti anni dalla morte di Don Milani e la parola ai poveri continua ad essere un messaggio estremamente valido, purché sia reinterpretato alla luce della nuova condizione dei saperi tecnologici, oggi. Noi viviamo in un processo di crescente omologazione. Il problema, quindi, non è quello di dare la parola. Essa è data, ma è una parola che fa poveri. Questa è la differenza fondamentale. E’ una parola che non libera più poveri, ma li rende schiavi».
Scriveva, invece, Padre Balducci sempre nel 1987 (Ci aspetta domani): «Se noi ricostruiamo la realtà storica di Milani, anche nella sua lontananza, tenendo conto della diversità della situazione e poi la interroghiamo, scopriamo che Don Milani è uno di quei maestri che non ci richiamano al ricordo del passato, ma che ci hanno dato appuntamento nel futuro».
Soltanto una società e, io aggiungo, un sindacato fondati sulla partecipazione cosciente e responsabile, possono contrastare la globalizzazione neoliberista e rifondare la politica e la rappresentanza, ricollegare etica, politica e diritto, ridare pienezza ad una democrazia spesso ormai solo formale.
Forse, ancora di più, senza rinunciare ad un profilo di senso, dobbiamo ripartire dalla società dei frammenti, come ci insegna Ivo Lizzola. Ripartire dal cooperare e da una comunità inclusiva, da luoghi apparentemente deboli e periferici come le aree interne (le Barbiana di oggi) nella megalopoli interconnessa e supersonica globale.
In tutto questo Don Milani e i suoi allievi ci hanno lasciato un percorso peculiare che incontra il valore del sindacato come strumento comune della giustizia, come luogo educativo, trasformativo, esperienziale di una società più giusta. A partire dagli ultimi, anche nel lavoro.
A partire da quella dimensione planetaria che ha a cuore l’umanità e la terra. Il lavoro come cura, il sindacato come tessuto di uguaglianza.
A quasi sessant’anni da quell’importante e decisivo congresso della Cisl del 1969 citato all’inizio di questo articolo e guardando al presente e al futuro in occasione dei cento anni della nascita di don Lorenzo Milani, ci è parso interessante e utile raccontare, nella nuova edizione di Quel filo teso tra Fiesole e Barbiana, due storie di intreccio tra periferie del lavoro, impegno e rappresentanza sindacale.
Due storie di lavoratrici e lavoratori al confine di quella che papa Francesco individua, perfettamente in linea con il solco tracciato dal priore di Barbiana rispetto al mondo del lavoro, come una missione sindacale che va vissuta intensamente tra: «profezia e innovazione».
Due contributi che ci accompagnano in due mondi che appaiono lontanissimi, ma che sono accomunati dall’essere a valle e a monte di una stessa filiera, quella dei prodotti agricoli e alimentari che incontrano la modernità turbolenta, a tratti spietata e distratta, dell’economia dell’algoritmo e delle piattaforme digitali.
Rider e braccianti: una sfida inedita e una antica per un sindacato che non può che prendersi cura a trecentosessanta gradi della persona, di un’umanità spesso diseredata, ma non per questo non diversificata e multiforme, anche nelle aspirazioni, oltre che nei bisogni.
Tra le strade trafficate e metropolitane di Roma capitale, come tra i campi della pianura della Capitanata, incontriamo un sindacato «in strada» e di «strada» che, non senza difficoltà, prova a essere prossimo e a identificarsi con chi vive ai margini di un’economia troppo spesso fondata sullo sfruttamento e sullo «scarto».
Un sindacato che prova a rappresentare, anche nel secolo successivo a quello in cui ha vissuto don Lorenzo Milani, con tutti i suoi limiti e le sue mancanze, una via opportuna per «praticare l’amore» e «cercare un fine, dare un senso alla Vita».