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Tornare alle parole di Don Lorenzo Milani

Autore

Davide Rossi
Segretario Generale del Sindacato Indipendente Scuola e Ambiente e Coordinatore nazionale del Centro di Formazione e Ricerca don Lorenzo Milani

Un buon prete. È enorme la mia tristezza quando partecipo a convegni in cui si ricorda la figura del più grande pedagogista italiano del Novecento – don Lorenzo Milani – e vedo svilita e svuotata la sua opera, ridotta a quella di un buon prete compassionevole che voleva tanto bene ai poverelli. Per carità, il priore è stato certamente un buon prete e le lezioni di catechismo domenicali per i suoi ragazzi portano ancora, per chi abbia la pazienza di leggerle, il segno di una freschezza che anticipa il Concilio Vaticano II, svoltosi dentro un fervoroso confronto tra posizioni ecclesiali spesso contrastanti, negli ultimi anni del suo impegno come parroco a Barbiana, ma poi il resto della settimana, dal lunedì al sabato, lui e le figlie e i figli di quei contadini e montanari, cacciati dalla scuola pubblica che lo stato repubblicano e la Costituzione avrebbero dovuto includere e aiutare, lo passavano nella sala attigua a quella chiesetta, con le carte geografiche e i grafici del parlamento italiano – legislatura dopo legislatura – capaci di occupare ancora oggi a imperitura memoria tutti i muri di quella canonica sgomberata da paramenti sacri e da incensi in cui per volontà di don Lorenzo Milani pure il crocifisso è stato messo nel cassetto, perché la scuola è un’altra cosa e la fede, quando è sincera, uno deve portarsela dentro, non attaccarla ai muri. 

Don Lorenzo Milani e i suoi ragazzi in Lettera a una professoressa hanno scritto: «Le maestre sono come i preti e le puttane, si innamorano alla svelta delle creature, se poi le perdono, non hanno tempo di piangere. Il mondo è una famiglia immensa. C’è tante altre creature da servire. È bello vedere di là dall’uscio della propria casa. Bisogna soltanto essere sicuri di non aver cacciato nessuno con le nostre mani».

Invitato a parlare di don Lorenzo Milani, di solito lascio parlare lui, perché incipriare i suoi insegnamenti con i nostri arzigogoli serve a poco, anzi rischia di essere fuorviante. Quando dico che il priore chiede ai docenti di amare i propri discenti più di quanto lo facciano i preti e le puttane, prima di ricordare la citazione, inizio a essere guardato con stupore, quasi con sgomento. 

Quando invito a scrivere all’ingresso delle scuole, tutte, che la scuola sarà sempre meglio della merda, ottengo, quando va bene, sorrisi bonari, in vent’anni non son mai riuscito a convincere un collegio docenti o un dirigente scolastico della giustezza dell’affermazione milaniana, né nelle scuole in cui ho insegnato e insegno, né in quelle in cui sono stato invitato a parlare del priore e della scuola di Barbiana, eppure loro hanno scritto: «Lucio, che aveva 36 mucche nella stalla disse: la scuola sarà sempre meglio della merda. Questa frase va scolpita sulla porta delle vostre scuole».

Quando dico che un professore senza idee e passioni, che vanno onestamente manifestate e dichiarate ai propri studenti, non è un buon insegnante, sempre ricordando Lettera a una professoressa, leggo sconcerto negli occhi degli astanti, anche perché «l’insegnante che boccia, boccia se stesso».

Quando aggiungo che don Milani ha scritto che un apolitico equivale a un fascista, gli ascoltatori quasi infastiditi non ci credono, eppure: «La maggioranza dei compagni che ho trovato a Firenze non legge mai il giornale. Chi lo legge, legge il giornale padronale. Ho chiesto a uno se sa chi lo finanzia: nessuno, è indipendente, mi hai risposto. Non vogliono saperne di politica, uno, a sentirmi parlare di sindacato, lo confondeva col sindaco. Dello sciopero hanno sentito dire soltanto che danneggia la produzione, non si domandano se è vero. Tre sono fascisti dichiarati. 28 apolitici più 3 fascisti eguale 31 fascisti». È proprio don Milani a ricordare che «voler bene al povero […] significa […] fargli capire che soltanto facendo tutto al contrario dei borghesi potrà passar loro innanzi e eliminarli dalla scena politica e sociale», ancora lui nello spettacolare e pirotecnico incontro con direttori e presidi a Firenze il 3 gennaio 1962 ad affermare: «io dico a un ragazzo: onora lo sciopero come la più alta espressione della tua dignità di uomo. Lo sciopero è un sacro istituto accettato dalla nostra Costituzione. Io a un ragazzo dico: sciopera sodo domani».

D’altronde per don Lorenzo Milani «una scuola che seleziona, distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose», anche perché «la lotta di classe quando la fanno i signori è molto signorile e non scandalizza né i preti, né i professori che leggono L’Espresso», dunque, concludeva il priore, «se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato e privilegiati e oppressori dall’altro, gli uni sono la mia patria e gli altri i miei stranieri».

Era dunque un infuocato rivoluzionario? Un protomarxista? Non credo proprio. Don Lorenzo Milani è stato semplicemente un uomo che ha dedotto con radicalità sorprendente e illuminante il prepotente impatto sociale degli insegnamenti evangelici e in particolare del comandamento cristiano dell’amore per il prossimo, facendone un impegno umano e didattico per la concreta e totale emancipazione dei poveri e degli esclusi dalla scuola pubblica, non contentandosi di una caritatevole, malcerta e inconcludente compassione, ma ritenendo che fosse necessario agire nella concretezza della realtà per cambiare il presente – suo e nostro – in vista di un migliore e più degno futuro, per lui in fondo «l’insegnante deve essere per quanto può profeta, scrutare i segni dei tempi, indovinando negli occhi dei ragazzi le cose belle che si vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso».

Gianni Rodari, recentemente riscoperto per quello che è, ovvero uno dei giganti della letteratura italiana e mondiale del Novecento, così ricordava il 1° ottobre 1967 il priore di Barbiana sulle pagine di “Paese sera” a pochi mesi dalla sua scomparsa: «Una violenta denuncia della nostra scuola è contenuta in Lettera ad una professoressa in cui gli allievi di don Milani hanno narrato la loro esperienza scolastica e illustrato i frutti delle loro ricerche. Il libro è un po’ un testamento del prete toscano, ma non spirituale, meglio dire di lotta. Un libro urtante, “cinese”, addirittura, in certe affermazioni da “rivoluzione culturale”. Non risparmia nessuno. Di una sincerità a volte brutale. Con tutto ciò, il più bel libro che sia mai stato scritto sulla scuola italiana, il più appassionante, il più vero. Vi si respira e misura la rivolta, l’aspirazione inarrestabile alla cultura, la volontà di cultura a tutti costi in cui si muta una profonda presa di coscienza dei propri diritti. Vorremmo consigliarlo a tutti gli insegnanti italiani, perché, nella sua durezza, è un appello alla grandezza della loro missione: anche nella critica ingiusta è un canto d’amore verso la scuola».

Si pone tuttavia, al di là di un metodo didattico ben delineato dalle parole del priore, il capire come intervenire sulla realtà odierna della scuola. Due sono i problemi urgenti e poco affrontati nel tempo presente, ovvero l’abbandono scolastico e le scuole parentali, che credo meritino una risposta. 

Oggi spesso i docenti sono vittime di aggressione da parte di genitori scalmanati che protestano per una insufficienza, che sia cambiato il metodo educativo rispetto al passato non vi è dubbio, che il rispetto per le istituzioni e per la scuola in particolare sia sempre più esile, per non dire inesistente, è altrettanto vero. Vi è certamente un’educazione delle nuove generazioni che non fortifica il carattere, ma moltiplica le fragilità, troppi però oggi restano esclusi dalla scuola, si perdono per strada o più precisamente noi docenti abbiamo perso, dovendo ragionevolmente assumerci le responsabilità che ci appartengono. Sempre più ragazze e ragazzi, dalle medie alle superiori, abbandonano la scuola, travolti dall’ansia, dalla paura, dalla stanchezza, da situazioni di improvvisa aggressività subita ed esercitata, da una incapacità di reggere le prove, le verifiche e le valutazioni. Ogni anno scolastico in Italia centomila ragazzi finiscono bocciati per le assenze, per poi ingrossare la dispersione scolastica, sommando fragilità economiche e psicologiche, personali e familiari. Sembrava, come sempre in Italia, un problema meridionale, proprio a Napoli si sono inventati un decennio fa i maestri di strada, docenti che non stanno a scuola, ma vanno in giro per i quartieri a recuperare i giovani che la scuola ha perso, costruendo percorsi didattici immaginati proprio per loro, calibrati sui loro bisogni e sulle loro possibilità, portandoli a conseguire almeno quel diploma di terza media senza il quale oggi non si può più fare nulla. Tuttavia questo non è più un problema meridionale, da Trieste a Siracusa, passando per tutte le città, grandi e piccine, il numero dei giovani che chiudono la porta di casa, o a volte addirittura della loro camera, per non uscire più, è cresciuta in modo esponenziale, oltrepassando di molto le cifre statisticamente accertate. I ritmi di studio, invero sempre più blandi, le conoscenze richieste, invero sempre più modeste, c’entrano molto poco, si dice e si ripete che queste ragazze e questi ragazzi non reggano i ritmi di studio, in realtà è un coacervo esplosivo di emozioni e sentimenti che turbina dentro di loro e li rende, purtroppo, sempre più estranei alla scuola, come luogo di costruzione dei saperi, come spazio di socialità con i coetanei, la mediazione informatica dei loro cellulari e dei loro computer lenisce, insieme alla distanza da tutto e da tutti, l’ansia sociale e la paura di sbagliare. Reggono soltanto quelle classi in cui milanianamente il e la docente amano chi si trovano davanti. 

Insomma la dispersione si trasforma presto in abbandono scolastico, sono giovani che poi con facilità abbracciano un rapporto ugualmente complicato con il cibo, in taluni casi allontanandosene, in tal’atri immergendovisi, altri ancora incidono il loro corpo, chi tatuandolo ovunque possibile con la speranza che quelle immagini siano parole capaci, gridate dalla loro muta pelle, di arrivare agli altri, tuttavia col rischio che scoloriscano col tempo o peggio non appartengono più loro nel mutare delle loro età, altri, come i monaci dei monasteri medievali, cercano nel dolore sanguinante della carne la più immediata e brutale conferma del loro essere ancora vivi. 

A queste realtà in ogni caso preoccupanti e con poche risposte, si affianca la scelta di molti genitori di promuovere personalmente o a gruppi scuole parentali, per superare quei vincoli, quelle barriere, quegli ostacoli che hanno impedito la partecipazione attiva e positiva dei genitori alla comunità educante scolastica, ma li ha visti preoccupati, straniati da un rapporto dettato da dinamiche meccaniche, prive di quella capacità di ascolto che coinvolge e rende partecipi. Dobbiamo inoltre ammettere che la maggioranza di queste comunità educative sono pregevoli per abnegazione, per impegno, per dedizione didattica, di più, in molti casi sono capaci di tenere a scuola giovani che altrimenti si perderebbero. Alcune, poche, funzionano male, non ce lo nascondiamo, ma l’esame annuale di passaggio alla classe successiva è il primo elemento sanzionatorio che obbliga queste scuole stesse a interrogarsi sul percorso da loro realizzato.

Ora a noi si pongono alcune domande in merito a quale rapporto si debba avere con queste comunità scolastiche che hanno intrapreso la via dell’educazione parentale. Ho ascoltato troppe volte un atteggiamento un po’ sprezzante, quasi che le critiche poste da tali realtà educative al sistema scolastico nazionale fossero del tutto improprie, o ancora si rimproverasse loro che sottraendo studenti al percorso pubblico e statale si mettessero a rischio alcune cattedre e dunque alcuni posti di lavoro. Tuttavia, poiché le scuole parentali, così come la dispersione, sono realtà esistenti e non eludibili, occorre decidere come scuola pubblica con quali modalità relazionarsi con le prime e affrontare poi il dramma della dispersione. I genitori di questi ragazzi sono contribuenti a tutti gli effetti della scuola pubblica e statale, dunque è compito dell’istruzione pubblica e statale farsene carico. Noi proponiamo che per le scuole parentali, sulla base di un reciproco apprezzamento e una reciproca disponibilità, docenti della scuola pubblica possano essere distaccati come insegnanti di queste realtà, con elementi di tutoraggio non impositivo, ma partecipativo del percorso scolastico e anche momenti didattici veri e propri, purché concordati con le scuole parentali stesse. I docenti poi potranno anche partecipare ai collegi docenti della loro scuola di provenienza e titolarità, per allargare la conoscenza di queste realtà all’interno dei percorsi ordinari. 

Uno scambio che generi dunque relazione e ricchezza didattica, che contribuisca alla partecipazione e all’innovazione, che si faccia carico di tutte e tutti e che non lasci nessuno indietro. 

Ugualmente in ogni provincia dovrebbe essere creato un contingente di docenti di strada, proporzionato e determinato dal numero di studenti di ogni livello e grado che abbiano abbandonato la scuola negli anni scolastici precedenti. Compito di tali docenti sarà monitorare le situazioni, dialogare con le ragazze e i ragazzi, costruire dove possibili percorsi individualizzati che li portino a rientrare a scuola o almeno a sostenere gli esami per non perdere l’anno. Occorre una grande campagna sociale di recupero alla scolarità e dunque alla socialità di tutte e tutti quei ragazzi che hanno chiuso la porta di casa e della loro camera e hanno messo la scuola e il mondo oltre loro stessi. È la scuola per prima che deve cercare di aprire quelle porte, di restituire a quelle ragazze e a quei ragazzi il mondo, passando appunto per la scuola, per l’amore per la vita, per la cultura, per i saperi, per le tante esperienze appassionanti che squarciano – attraverso lo studio – davanti alla nostra coscienza mondi prima ignoti, perché nessuno di noi conosceva Dante o Michelangelo prima che un libro di casa, un genitore, un fratello, un professore ci aiutasse a conoscere quello che prima non conoscevamo.

Dovrebbero essere dunque definiti i contingenti dei docenti da destinarsi alle scuole parentali e ad affrontare la dispersione scolastica, con un unico vincolo, che tali docenti debbano aderire su base assolutamente volontaria, formando graduatorie separate, ovvero che siano animati da un lato da un rispetto ricambiato da parte delle scuole parentali, dall’altro – sul tema della dispersione – che sappiano come siano chiamati a svolgere un ruolo delicatissimo, volto a salvare il diritto costituzionale dell’istruzione per giovani che sono in una situazione di debolezza estrema. Simili iniziative sono un’occasione per nuovi posti di lavoro, quindi un arricchimento dell’offerta formativa, ma anche un modo per restare fedeli, in questo 2023 che ricorda il centenario della nascita di don Lorenzo Milani, di onorare lui che per primo ha inventato una scuola parentale nella sua parrocchia, scuola pubblica perché aperta a tutte e tutti, ma certo scuola non immediatamente connessa con il sistema statale, Barbiana è stata di fatto, pur essendo nella sostanza una scuola privata, appunto una scuola parentale, il punto più alto della nostra istruzione pubblica e statale, che lui e i suoi studenti amavano e desideravano accogliente, decisa e determinata a trasmettere i saperi, inclusiva.

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