Quel giorno era bianco o nero,
nulla potevi vedere di colorato
e la mia solita curiosità mi aveva spinto ad incamminarmi nell’ignoto,
a conoscerlo
non si sa mai che una persona magari in mezzo a tutto quel caos
ne è stata risucchiata ed ora,
seduta a terra
domanda ossigeno al cielo
che ora come ora mai glielo donerà.
Arrivata alla collina delle natiche ero già stanca,
al mattino il caffè preso era poco concentrato
ma la luce non mi permetteva di produrre la mia solita bontà,
visto?
Tutti pensano che il proprio dolore scorre unicamente nelle sue vene,
lacera soltanto la sua pelle,
bagna esclusivamente i suoi occhi
ma mai si ricordano che gli scarti arrivano anche alle persone che ti stanno accanto
e con questo non intendo dire che bisogna farsene una colpa,
oppure che le persone esterne soffrono di più.
Solamente che io se ho una persona accanto che sta male crollo con lei
nella speranza di prendergli la mano ed accompagnarla in superficie.
Le urla delle persone mi chiamano
allora ho continuato questo percorso verso il nulla.
Poggiavo i piedi su pavimento bianco latte
la paura mi sfiorava l’orecchio, così da disorientarmi ancor più.
La mia prima pausa l’ho fatta seduta sulla colonna,
quella vertebrale, c’era una cunetta ed io ho colto l’occasione per riposare le gambe.
Dopo pochi minuti il mio posto a sedere non era più così comodo
il pavimento si muoveva
e l’ansia incominciava ad avere forza su di me,
come avrei mai fatto a salvare qualcuno senza sentire il pavimento sotto ai piedi?
La pianura schiena si muoveva ed io non capivo
l’assecondavo,
un po’ come quando andavo a cavallo
che ascoltavo attentamente i movimenti dell’animale e li facevo con lui,
in un battito di ciglia tutto era nero,
neanche il tempo di trovare un posto più sicuro
che la pianura si agitava;
i capelli miei ormai corvini
ed assieme mani e piedi
colore s’era dato a gambe,
lasciata sola in mezzo al sangue,
solo le ferite mie sboccavano
sboccava sangue ed i cerotti non vi erano più,
li tenevo ben incollati ma neri non erano
ed ecco scoperto il mio diavolo dentro
dentro di me, che si nutriva di sangue.
Esso scorreva veloce a terra,
mi accarezzava le caviglie
e mi memorava di quanto poco bastasse, per ferirsi a sangue.
Urlavo poiché rossa ero diventata anch’io
tuttavia venivo soffocata
da tutto il dolore che sempre mi accompagnava,
ho provato a camminare e son scivolata
successivamente ribaltata in mezzo al bianco.
Ero disorientata,
le braccia sgocciavano e di lacrime ero fatta
ma da lontano dei banchi intravedevo
e la mia voglia di sedermi e rimettere in ordine la testa era molta,
quindi, zoppicando sono arrivata alla prima seggiola.
“Vogliamo insegnarti l’educazione:
postura adatta, schiena diritta, studia e pensa
a quel che diciamo noi,
che capisci, agli affari tuoi?
Torna a casa prendi il libro
quattro capitoli o forse cinque
li studierebbe ben chiunque,
muoviti!
Domani c’è l’interrogazione,
postura adatta e prendi un bel nove
otto non è abbastanza se nella tua vita
vuoi successo, devi averlo su carta.”
Ero avvolta da altre persone completamente bianche,
tanto ceree da non capire quando il naso terminasse
o dove avevano i piedi,
solo queste parole continuavo a sentire
e quindi ho provato a fuggire finché non ha incominciato a piovere
solo che piccole gocce di rubro scendevano
e alla fine qualcuno se n’è accorto pure
che c’ero anch’io.
“Chi sei tu? Cosa vuoi? I miei appunti? Beh non puoi!
Vuoi forse superarmi? Credi di riuscirci?
Sei una fallita, si vede già
nessuno porterebbe quella giacca o quei capelli
sei brutta ma già lo saprai
cosa vuoi portare a scuola? Forse i guai?”
Io non potevo vedere nessuno e nemmeno me stessa,
allora perché questa sagoma poteva vomitare parole tanto aspre?
Come mai aveva il potere di rigarmi il viso di lacrime rosse
e di ferirmi e farmi correre via,
siccome tutto era diventato pesante;
che io a scuola avrei voluto sempre starci ma la mia mente non me lo permetteva
anche se stavo giorni e giorni a studiare come aiutarla,
a prender pillole, tutto era uguale
ed ora cosa vuole pure tutto questo indefinito?
Sono galoppata via,
con indice e medio incrociati
che a poco sarebbe stato tutto un brutto sogno.
Con occhi socchiusi che perdevano acqua io mi fiondavo su per la montagna collo,
solo una breve sosta al pomo d’Adamo
per poi arrivare ad un posto sconosciuto che mi ha fatto tirare
un sospiro di sollievo.
In posizione fetale nel padiglione dell’orecchio,
lasciavo scorrere le mie lacrime come fiume,
mi stringevo forte le ginocchia e speravo di vedere qualche colore
o di aggiustarmi il cervello con il tempo.
Era oramai notte ed io avevo paura,
sarebbe stato meglio arrivare al timpano che forse c’era più caldo,
il dolore era già troppo,
aggiungere una morte congelata sembrava esagerato
anche se un ottimo spunto per un libro.
In lontananza c’erano dolci voci,
come quando andavo da nonna
e appena entrata dalla porta mi travolgeva quel profumo di biscotti,
oppure da piccina, sempre col naso tra i libri di quella piccola biblioteca
o anche quando la mamma mi abbracciava dopo qualche dispiacere.
Quel profumo dolce e candido,
quelle sensazioni che ti portano calore in tutto il petto,
che io per tempo, alla ricerca di quest’emozione,
andavo al mio negozio favorito da piccola e mi donavo un giocattolo
ma non era certo la stessa cosa.
I piedi si muovevano da soli al solo pensiero d’incontrare un posto
oppure una persona,
che odorava di casa e di felicità.
Sulla soglia ero quando ho visto mamma e papà abbracciati,
seduti sul divano,
con vicino una ciotola di pop-corn
e con braccia aperte come invito all’abbraccio più gradito
di un’intera vita.
Li corsi incontro, impallidita
mi sono seduta in mezzo
ho notato poi che stavano guardando lo stesso programma di sempre,
quello che anche a me piaceva
e che poi avevo cercato il nome dappertutto
e mai ero riuscita a scovarlo, nemmeno lasciando accesa tutto il giorno la tv.
Potevo chiudere gli occhi e non avere più paura,
le mie mani stavano incominciando a riprendere colore
ed io ero in pace,
il cuore mi batteva tanto,
quando c’era silenzio s’interrompeva sempre con:
“Ma cosa sarà questo baccano?”
Ed io mi posavo le mani all’altezza del cuore
come per dire che finalmente da questo viaggio ero tornata a casa,
tutto era a posto
e le lacrime potevano riposarsi e gli occhi sgonfiarsi.
Finalmente pace e tranquillità,
non più piogge rosse e cattiveria.
Ad interrompere il silenzio una domanda, una sola
che mi ha invitato il mal di pancia,
il quale non si è fatto scrupoli a battere con la mazza sul mio ventre.
“Mamma o papà?” “Con chi vuoi stare?”
Quel poco colore era evaporato,
i miei occhi ghiacciati davanti al viso dei miei genitori che aspettavano una risposta.
Senza dir nemmeno una parola mi sono alzata,
il volume della televisione era impazzito, si alzava e si abbassava da solo,
papà mi urlava di non andare e mamma urlava a papà di non urlare
ed io mi sentivo sola e distrutta,
priva di una strada.
Barcollavo alla ricerca della direzione giusta,
dove il vento tirava meno o forse più,
fiduciosa di non incrociare mai quelle abitazioni
bensì starne alla larga
che poi magari ci avrei sperato di nuovo,
mi sarei fatta ingannare dal buon profumo
e sarei precipitata nuovamente nel fango
e poi ripulirsi è sempre più difficile di sporcarsi.
Arrivata al naso, che era poi un trampolino,
il buio era calato attorno a me,
vento rabbioso,
luna con lame al posto di raggi di luce.
“Mi porta via con sé
rimango allibita
a capire che
il cuor mio non funziona
lampeggia e suona,
non capisco e non riordino
come posso stare comodo?
Vorrei correre
star contento
ma ogni attimo
è un tormento,
follia è questa
pensai quel dì
e mi ritrovo ancora qui.
Penso allora di precipitare
esser pioggia
e vomitare
la paura è con me
e non riesco a respirare senza lei
appiccicata alle pareti
della persona mia.
Corro forte e corro via
la paura m’inseguirà
tenterò d’esser gazzella
ma rimango quella meno gettonata.
Come posso star qui
se crollo tutti i giorni
divento pioggia rossa
lacrime e veleno
e a nessuno importa mai,
per davvero?”
Citando queste frasi ho messo piede sulla passerella che s’era aperta davanti a me
tutta rossa con in fondo uno specchio
ed eccomi raffigurata per disgrazia,
sognavo sempre di non vedermi ed ero in piedi davanti al mio riflesso,
ho iniziato a tirare pugni, a scappare da quella che sono io,
mi sono tagliata graffiata,
la disperazione regnava dentro me
e speravo di sparire così facendo,
che la mia immagine si offuscasse o che la mia forma cambiasse
che il corpo mio non riconosco e mi sento proprio un mostro.
L’ultimo pugno da potente che era ha sgretolato l’intero pavimento
fino a farmi volteggiare in aria,
alla velocità della luce
ad osservare quel cammino fatto,
i seni pieni di tagli ed i capezzoli che da lontano sembrano case
e non montagne da superare
che magari percepisci ancora l’olio delle mani di individui con permessi trasparenti.
Con occhi socchiusi notavo le ginocchia insanguinate
vedevo questo corpo totalmente bianco
in cui l’unico colore che regnava era il rosso
e mi domandavo quante battaglie il mondo perde,
quante mamme affrontano il dolore di perdere un figlio,
in quanti vengono a mancare per un tumore,
a chi non accetta il proprio corpo, tanto da odiarlo,
a chi non si sente libero di baciare chi ama in pubblico,
a tutti gli animali alla ricerca di un habitat giusto per loro,
a quanti cuori battono solo per il primo amore che mai tornerà,
ai sogni persi di noi tutti,
alle risse in cui siamo rimasti fermi e bloccati sudando freddo,
ai frammenti di cuori spezzati, ridotti in poltiglia,
a tutti i figli che accompagnano i loro genitori verso l’ultimo respiro.
Mentre stavo per morire e dunque lasciarmi andare al nero più profondo
riflettevo su quanto poco avessi dato a me stessa
e quanto agli altri,
alle volte in cui l’abbraccio dovevo donarlo a me
e che forse odiarsi così tanto non serviva,
le mie braccia, le mie gambe
sarebbero state più belle senza tagli e ricoperte di cerotti,
il cibo non era un campanello d’allarme bensì una necessità
e un qualcosa per il quale valeva la pena vivere e gustare.
Alle porte della morte, come tutti,
desideravo che il mio ultimo respiro fosse più lungo,
come quelle ore di storia che sembrano non finire mai
o la fila al supermercato.
Ho desiderato spesso di sparire
e soltanto adesso capisco che quello con cui non volevo più aver a che fare,
erano le battaglie sanguinose che s’erano stabilite dentro me,
proprio vicino al cuore.
Qualcuno però doveva sacrificarsi per far capire che lottare e perdere,
sporcarsi le mani e avere gli occhi gonfi di pianto
è meglio che non lottare e chiudere gli occhi.
Arrivando alla meta il mondo intorno a me iniziava a prender colore
e capivo che forse, anche una sola visita dall’oculista mi avrebbe fatto bene
e non dovevo evitarla con così tanta determinazione.
Ali sulla schiena mia non vi erano,
alcuna possibilità di salvataggio
rossa diventavo
di tutte le ferite che si erano stanziate su di me
a cui avevo offerto doni dal cuore,
siccome convinta che il dolore fosse casa
e non rendendomi conto che fosse una fesseria
ora ci rimetto la vita
per una storia che era già finita.
Arrivata al traguardo sorrido singhiozzando
poiché almeno, prima che la vita mia m’abbandonasse
mi son resa conto di quanto si sbagliasse;
la me stessa su di me.
-Biancaneve