Amitav Ghosh in dialogo con Ugo Morelli

Autore

Ugo Morelli
Ugo Morelli, psicologo, studioso di scienze cognitive e scrittore, oggi insegna Scienze Cognitive applicate al paesaggio e alla vivibilità al DIARC, Dipartimento di Architettura dell’Università Federico II di Napoli; è Direttore Scientifico del Corso Executive di alta formazione, Modelli di Business per la Sostenibilità Ambientale, presso CUOA Business School, Altavilla Vicentina. Già professore presso le Università degli Studi di Venezia e di Bergamo, è autore di un ampio numero di pubblicazioni, tra le quali: Mente e Bellezza. Arte, creatività e innovazione, Allemandi & C, Torino 2010; Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino 2011; Il conflitto generativo, Città Nuova, Roma 2013; Paesaggio lingua madre, Erickson, Trento 2014; Noi, infanti planetari, Meltemi, Milano 2017; Eppur si crea. Creatività, bellezza, vivibilità, Città Nuova, Roma 2018; Noi siamo un dialogo, Città Nuova Editrice, Roma 2020; I paesaggi della nostra vita, Silvana Editoriale, Milano 2020. Collabora stabilmente con Animazione Sociale, Persone & Conoscenza, Sviluppo & Organizzazione, doppiozero, i dorsi del Corriere della Sera del Trentino, dell’Alto Adige, del Veneto e di Bologna, e con Il Mattino di Napoli.

Ugo Morelli

Tra le tante dimensioni della tua poetica narrativa, due sono evidenti: l’orientamento planetario e interculturale, il dialogo tra le culture del mondo, e la vivibilità sul pianeta Terra, ovvero la ricerca delle possibilità di vedere la nostra condizione di rischio, come specie umana, e di cambiare idee e comportamenti. Puoi esprimerci qualche considerazione in proposito?

Amitav Ghosh

Penso sia possibile che quello a cui stiamo assistendo sia l’inizio di un certo tipo di biofilia, quella che alcuni studiosi chiamano, se vuoi, religione verde. Queste credenze si stanno diffondendo non perché gli umani si siano improvvisamente svegliati, ma perché la Terra si è inserita nella conversazione con grande violenza. Stiamo vedendo che quasi tutto ciò in cui una volta credevamo è solo una sciocchezza. Di tutti i modi di pensare, il più illusorio è quello economico. Possiamo vederlo ora. Eppure, viviamo in una società che adora l’economia. Quindi, è molto chiaro che dobbiamo relazionarci con la terra in modi diversi e penso che stia accadendo. Tuttavia, penso che dobbiamo anche considerare attentamente alcuni rischi perché quel tipo di biofilia può facilmente scivolare in un certo tipo di eco-fascismo, con le persone che immaginano che ci sia una sorta di connessione di suolo e terra tra le persone e la terra. 

Uno degli aspetti più positivi della crisi climatica è che ha chiarito che la Terra non è un’entità inerte. Nessuno lo ha detto più chiaramente di James Lovelock, che (in collaborazione con Lynn Margulis) ha proposto l’ipotesi Gaia. Ecco alcune frasi di un suo articolo intitolato “Cos’è Gaia”: “Molto tempo fa i Greci… diedero alla Terra il nome Gaia o, in breve, Ge. A quei tempi scienza e teologia erano una cosa sola e la scienza, anche se meno precisa, aveva un’anima. Col passare del tempo questa calda relazione svanì e fu sostituita dalla freddezza degli studiosi. Le scienze della vita, non più interessate alla vita, sono cadute nella classificazione delle cose morte e persino nella vivisezione… Ora almeno ci sono segnali di cambiamento. La scienza ridiventa olistica e riscopre l’anima, e la teologia, mossa da spinte ecumeniche, comincia a rendersi conto che Gaia non va suddivisa per convenienza accademica e che Ge è molto più di un prefisso. Le idee di Lovelock sono state a lungo criticate e derise dagli scienziati, anche a causa della sua scelta del nome “Gaia”, che era la dea greca della Terra. Ma il motivo per cui ha scelto quel nome è che non riusciva a trovare un concetto equivalente nel moderno vocabolario tecnico-scientifico; doveva tornare a una personificazione della Terra come una dea.

UM

La pubblicazione del libro La maledizione della noce moscata [in italiano, Neri Pozza 2022], continua una linea narrativa di particolare forza etica, storica e poetica, iniziata con un saggio sulla responsabilità della letteratura riguardo alla rappresentazione dell’inconscio ambientale, apparso nel 2009 su Lettera Internazionale, Bon Bibi e la tigre, e proseguito poi, tra l’altro, con La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile [in italiano, Neri Pozza 2017]. Perché una scelta così definita e responsabile per un narratore?

Amitav Ghosh

Sento che per uno scrittore è importante riflettere sulla realtà in cui viviamo, sull’etica, sullo stato delle cose nel mondo moderno. Questo non è mai stato più vero che durante la pandemia, quando abbiamo avuto così tanto tempo per riflettere sulle nostre circostanze e sulla nostra condizione. Certamente la cosa che la pandemia ha chiarito è che molto di ciò che credevamo durante il periodo pre-pandemico fosse davvero una sorta di illusione ─ l’idea della padronanza umana, l’idea che gli esseri umani fossero saldamente al comando di tutto ciò che stava accadendo sul pianeta, l’idea che la tecnologia avesse risolto tutto ─ tutte queste idee sono ormai estinte. Dobbiamo cercare di trovare un altro modo di relazionarci gli uni con gli altri e con la Terra.

UM

Una delle questioni portanti de La maledizione della noce moscata è la “trasformazione in risorsa” dei beni comuni del pianeta che ci ospita. Un modello di sviluppo pervasivo e distruttivo della stessa vivibilità. Puoi parlarcene?

Amitav Ghosh

Per come la vedo io, l’idea che la Terra sia un deposito inerte di risorse che esiste principalmente per essere sfruttata da (alcuni) esseri umani, non ha le sue origini né nella “Natura”, né nelle filosofie meccanicistiche, né in certe tradizioni scritturali, come talvolta si sostiene. Le sue origini risiedono, a mio avviso, nella violenza apocalittica che è stata scatenata dagli europei contro gli Altri umani nelle Americhe e in Africa. In particolare, è stata la violenta “sottomissione” del popolo delle Americhe, credo, che ha permesso agli europei delle élite di pensare che ogni cosa sul pianeta fosse disponibile per la conquista, la schiavitù e persino lo sterminio, come è successo nel Banda Isole. In altre parole, la stessa violenza che ha permesso agli europei d’élite di pensare ai loro Altri umani come esseri puramente materiali, privi di ragione, pensiero e azione (“mezzo diavolo e mezzo bambino” nelle parole di Kipling) ha anche reso possibile per loro pensare alla Terra e ai suoi doni allo stesso modo.

Sia i non umani che gli Altri umani erano rappresentati come idonei ad essere “sottomessi” (parola che ricorre spesso nei testi coloniali).

A mio avviso il genocidio di Banda del 1621 è un’illustrazione particolarmente vivida di come questi due processi di sottomissione si intersecassero. Per ottenere il controllo del commercio dei prodotti dell’albero di noce moscata, gli olandesi decisero di fatto di sterminare e ridurre in schiavitù l’intera popolazione delle isole. Questo rappresenta, credo, un punto di svolta molto importante nella storia. Nell’immaginario occidentale Gengis Khan è sempre additato come il supremo esempio di spietatezza e crudeltà. Ma Gengis Khan non si è mai messo a sterminare la popolazione di un luogo per impossessarsi dei suoi prodotti. Né estinse civiltà fiorenti, come fecero gli europei nelle Americhe: Gengis Khan ei suoi discendenti si adattarono infatti molto velocemente alle culture dei luoghi conquistati.

O considera anche gli olandesi. Non si sarebbero mai detti: “Beh, giù in Borgogna fanno dei bei vini, che potrebbero essere molto redditizi. Allora perché non andiamo laggiù e uccidiamo tutte le persone e prendiamo la loro terra e la loro uva?” Questo non sarebbe venuto loro in mente perché avrebbero capito che i vini della Borgogna non sarebbero stati quello che erano se non per le proprietà specifiche del terreno e le conoscenze tecniche delle persone che vivevano e coltivavano il terreno.

È importante ricordare, credo, che molti se non la maggior parte dei prodotti della Terra un tempo erano pensati nel modo in cui oggi pensiamo ai vini della Borgogna o ai formaggi di Parma. Così, ad esempio, nel corso dei millenni le isole Banda hanno attratto commercianti da molti luoghi lontani: Cina, India, mondo arabo e Africa. Molti di quei commercianti hanno trascorso anni a vivere nei Bandas, e avrebbero avuto una perfetta familiarità con le tecniche per la coltivazione degli alberi di noce moscata; né sarebbe stato affatto difficile per loro contrabbandare semi e piantine, da coltivare nei loro paesi. Eppure, nessuno di loro lo ha mai fatto. Invece, per secoli, hanno intrapreso il difficile e pericoloso viaggio attraverso l’Oceano Indiano fino alle Isole Banda. La ragione di ciò era semplicemente che una noce moscata non era una noce moscata a meno che non provenisse dalle vicinanze delle Isole Banda, coltivate o lavorate dai bandanesi, proprio come i vini della Borgogna non sono vini della Borgogna a meno che non siano coltivati ​​da persone che sono intimamente legati alla terra e ai suoi prodotti.

Sono esattamente queste connessioni che vengono interrotte dal colonialismo, come si è evoluto dopo la conquista delle Americhe. All’improvviso tutto nel mondo è in palio, specie botaniche, minerali e, ovviamente, anche persone. L’albero di noce moscata diventa una macchina generatrice di profitto da piantare ovunque piaccia al colonizzatore, e le persone che lo hanno coltivato per secoli diventano completamente sacrificabili. In tal senso i bandanesi furono tra i primi a subire la “maledizione delle risorse”, e la crisi planetaria di oggi non è altro che il dispiegarsi di quella maledizione su scala planetaria.

UM

La crisi ambientale e climatica risulta strettamente connessa alle disuguaglianze e all’ingiusta e iniqua appropriazione delle risorse. Le migrazioni, con tutte le tragedie relative, sono una manifestazione drammatica del problema. L’ecologismo di maniera diventa addirittura un modo per eludere l’effettiva natura dei problemi. Cosa ci puoi dire in proposito?

Amitav Ghosh

A mio avviso, le disuguaglianze di vario genere sono al centro della crisi climatica. Un aspetto molto importante di questa disuguaglianza geopolitica. Ma anche le disuguaglianze di genere sono vitali. Uno degli aspetti più tristi della crisi è che le voci delle donne che devono camminare sempre più lontano per andare a prendere l’acqua, a causa dell’intensificarsi della siccità, non sono mai state adeguatamente ascoltate. Ai massimi livelli, la politica climatica e il discorso sul clima continuano ad essere in gran parte incentrati sulle vecchie élite di potere e di genere.

UM

Il Sundarban e l’immenso arcipelago di isole che si estende fra il mare e le pianure del Bengala, sono il teatro, anche metaforico, di una parte importante della tua narrazione. Quali sono le ragioni di questa scelta?

Amitav Ghosh

È stato il Sundarban ad aprirmi gli occhi sulla minaccia del cambiamento climatico. Anche vent’anni fa era chiaro che gran parte della foresta correva un rischio imminente di inondazione. Tuttavia, è importante notare che questi impatti non possono essere attribuiti esclusivamente al cambiamento climatico (questo è un punto che deve essere sottolineato anche in relazione a molte altre questioni, come le inondazioni urbane). L’interferenza umana con il paesaggio ha enormemente amplificato gli impatti dell’innalzamento del livello del mare nelle regioni deltizie di tutto il mondo. A causa di dighe e sbarramenti, nonché dell’estrazione di petrolio e acqua, i delta dei fiumi in tutto il mondo stanno affondando a una velocità da tre a quattro volte maggiore rispetto all’innalzamento del livello del mare. Nel caso del Sundarban c’è il fattore aggiuntivo dell’attività ciclonica. 

Il Golfo del Bengala è una regione notoriamente soggetta a cicloni. In effetti la stessa parola “ciclone” fu coniata a Calcutta nel 1840 da un meteorologo inglese dilettante di nome Henry Piddington. Storicamente, il Bengala e i Sundarbans hanno vissuto alcune delle tempeste più distruttive del mondo. Nel 1737, un ciclone quasi cancellò la città di Calcutta, che allora era agli inizi. Come a volte accade con i cicloni, questa tempesta è stata accompagnata da un terremoto e da una tempesta con onde che si pensa abbiano raggiunto un’altezza di 12-13 metri (più di tre volte superiore all’onda di 6-7 metri generata dal ciclone Nargis). Si sa che altri due cicloni nella regione hanno ucciso centinaia di migliaia di persone: il cosiddetto ciclone Buckerganj del 1876 e il ciclone Bhola del 1970. Si pensa che quest’ultimo abbia ucciso almeno mezzo milione di persone, e si calcola essere il peggior disastro naturale del 20° secolo.

Negli ultimi anni, i sistemi di allerta preventiva e il miglioramento delle procedure di evacuazione hanno ridotto enormemente il bilancio delle vittime dei cicloni. Tuttavia, i cicloni continuano a esigere un costo terribile, soprattutto nei Sunderbans, poiché la foresta di mangrovie è la barriera che protegge l’interno del Bengala assorbendo l’impatto principale delle tempeste distruttive. Quando il ciclone Aila ha colpito la regione nel 2009, il bilancio delle vittime è stato, fortunatamente, molto inferiore a quello delle tempeste precedenti.

Ma gli effetti a lungo termine della tempesta sono stati comunque devastanti: molti argini sono stati distrutti e vaste distese di terreno un tempo fertile sono state inondate di acqua salata. In seguito, ci fu un enorme emigrazione di persone dalla regione. Mi è stato detto che anche il ciclone Bulbul, che ha colpito le Sundarban nel novembre di quest’anno, ha causato enormi danni.

Uno degli effetti previsti del cambiamento climatico è che intensificherà l’attività ciclonica. Ciò significa che il Sundarbans e il delta del Bengala saranno colpiti da molte altre tempeste devastanti negli anni a venire.

UM

Fin dalla straordinaria avventura narrata ne Lo schiavo del manoscritto, la tua attenzione è rivolta al dialogo tra le culture, anche in epoche lontane e tra paesi molto distanti. Un’evidenza delle radici originarie della civiltà planetaria. Nonostante questo, noi esseri umani continuiamo a dividerci e a offenderci, con guerre, esclusioni, negazioni. Come mai le cose vanno così, secondo te?

Una questione di particolare importanza è la persistenza della negazione della crisi climatica e dei problemi ambientali e di convivenza tra popoli e culture. Fino all’indifferenza. Di fronte alle catastrofi mostriamo di essere ciechi o di girarci dall’altra parte, dopo qualche manifestazione di paura e preoccupazione che presto si dissolve. Come interpreti tutto questo? Quali prospettive vedi?

Amitav Ghosh

Uno dei libri più importanti sul cambiamento climatico è Living in Denial: Climate Change, Emotions, and Everyday Life di Kari Marie Norgaard, uno studio etnografico su una piccola città norvegese. Gli abitanti di questa città (chiamata “Bygdaby” nel libro) sono ricchi, istruiti e politicamente consapevoli, con opinioni progressiste su questioni come la migrazione e la razza. Sono anche estremamente ben informati sul cambiamento climatico, che li ha colpiti direttamente in quanto ha colpito una delle loro principali fonti di reddito: lo sci e il turismo. Ora c’è meno neve, quindi meno turisti. Eppure, in questa città il cambiamento climatico non viene mai discusso pubblicamente e molto raramente se ne parla in privato; né la gente della città, che è attiva su molte questioni politiche, è affatto interessata a sostenere questa causa. Ciò che il libro mostra è che non possiamo attribuire l’inazione sul cambiamento climatico all’ignoranza (o alla “negazione”), alla mancanza di istruzione o all’apatia politica.

C’è un presupposto tra molti scienziati del clima che una corretta “comunicazione” (o “diffondere il messaggio”) porterà a un’azione decisiva di mitigazione. Alla base di questo presupposto c’è la convinzione che le persone (e le società) siano entità razionali e che le loro azioni siano basate su informazioni che vengono loro presentate. Purtroppo questo probabilmente vale solo per università e laboratori. In relazione alle società e agli stati-nazione, penso che dobbiamo considerare altre possibilità molto più preoccupanti: che non sia l’ignoranza a impedire alle persone di agire sul cambiamento climatico; che consapevolmente o meno, la maggior parte delle persone lo sa già.

Il problema sta da qualche altra parte, forse, come dici tu, nei nostri modi di immaginare e pensare. Il filosofo francese Jean-Pierre Dupuy scrive: “Se distruggiamo la natura è perché odiamo la natura?” Certo che no, semplicemente ci odiamo l’un con l’altro”. 

Potrebbe benissimo avere ragione. 

Amitav Ghosh in dialogue with Ugo Morelli

Ugo Morelli

Among the many dimensions of your poetic narrative, two are evident: the planetary and intercultural orientation, the dialogue between the cultures of the world, and livability on Earth planet, or the search for the possibility of seeing our condition of risk, as a human species, and to change ideas and behaviors. Can you give us some thoughts on this?

Amitav Ghosh

I think it’s possible that what we are seeing is the beginning of a certain kind of biophilia, what some scholars call green religion, if you like. These beliefs are spreading not because humans have suddenly woken up, but because the Earth has inserted itself into the conversation with great violence. We are seeing that almost everything we once believed is just nonsense. Of all ways of thinking, the most deluded is that of economics. We can see that now. And yet we live in a society that worships economics. So, it’s very clear that we have to relate to the land in different ways and I think that is happening. However, I think we do also have to state certain caveats because that kind of biophilia can very easily slide over into a certain kind of eco-fascism, with people imagining that there’s a sort of blood and soil kind of connection between people and the land.

One of the more positive aspects of the climate crisis is that it has made it clear that the Earth is not an inert entity. No one has said this more clearly than James Lovelock, who (in collaboration with Lynn Margulis) propounded the Gaia hypothesis. Here are some sentences from an article of his called ‘What is Gaia’: “Long ago the Greeks… gave to the Earth the name Gaia or, for short, Ge. In those days science and theology were one and science, although less precise, had soul. As time passed this warm relationship faded and was replaced by the frigidity of schoolmen. The life sciences, no longer concerned with life, fell to classifying dead things and even to vivisection… Now at least there are signs of a change. Science becomes holistic again and rediscovers soul, and theology, moved by ecumenical forces, begins to realize that Gaia is not to be subdivided for academic convenience and that Ge is much more than a prefix.”

Lovelock’s ideas were for a long time criticized and mocked by scientists, not least because of his choice of the name ‘Gaia’ – who was the Greek goddess of the Earth. But the reason he chose that name is that he couldn’t find an equivalent concept in the modern techno-scientific vocabulary; he had to go back to a personification of the Earth as a goddess.

UM

The publication of the book The nutmeg’s curse [in italian, Neri Pozza 2022], continues a narrative line of particular ethical, historical and poetic force, which began with an essay on the responsibility of literature with regard to the representation of the environmental unconscious, which appeared in italian in 2009 on Lettera Internazionale, Bon Bibi and the tiger, and then continued, among other things, with The great derangement. Climate change and the unthinkable [in italian, Neri Pozza 2017]. Why such a definite and responsible choice for a writer?

Amitav Ghosh

I do feel that for a writer it is important to reflect the reality that we live in, on ethics, on the state of things in the modern world. This has never been truer than during the pandemic when we have so much time to reflect on our own circumstances. Certainly the thing that the pandemic has made clear is that much that we believed during the pre-pandemic period was really a kind of an illusion ─ the idea of human mastery, the idea of that human beings were firmly in charge of everything that was happening on the planet, the idea that technology has solved everything ─ all these ideas are now extinct. We have to try and find some other way of relating to each other and to the earth.

UM

One of the main issues of The Nutmeg’s Curse is the “transformation into a resource” of the common goods of the planet that hosts us. A pervasive and destructive development model of livability itself. Can you tell us about it?

Amitav Ghosh

As I see it, the idea that the Earth is an inert repository of resources that exists primarily to be exploited by (some) humans, had its origins neither in ‘Nature’, nor in mechanistic philosophies, nor in certain scriptural traditions, as is sometimes argued. Its origins lie, in my view, in the apocalyptic violence that was unleashed by Europeans against their human Others in the Americas and Africa. In particular, it was the violent ‘subduing’ of the people of the Americas, I think, that made it possible for elite Europeans to think of everything on the planet as being available for conquest, enslavement and even extermination, as happened in the Banda Islands. In other words, the same violence that made it possible for elite Europeans to think of their human Others as purely material beings, lacking in reason, thought and agency (‘half-devil and half-child’ in Kipling’s words) also made it possible for them to think of the Earth and its gifts in the same way. Both non-humans and human Others were represented as being fit to be ‘subdued’ (a word that recurs often in colonial texts). 

In my view the Banda genocide of 1621 is a particularly vivid illustration of how these two processes of subduing intersected. In order to gain control of the trade in the products of the nutmeg tree, the Dutch effectively decided to exterminate and enslave the entire population of the islands. This represents, I think, a very important inflection point in history. In the Western imagination Genghis Khan is always held up as the supreme example of ruthlessness and cruelty. But Genghis Khan never set about exterminating the population of a place in order to seize its products. Nor did he extinguish flourishing civilizations, as Europeans did in the Americas: in fact Genghis Khan and his descendants were very quick to adapt to the cultures of the places they conquered.

Or consider even, the Dutch. They would never have said to themselves: ‘Well, down in Burgundy they make some nice wines, which could be very profitable. So why don’t we just go down there and kill all the people and grab their land and their grapes?’ This would not have occurred to them because they would have understood that the wines of Burgundy would not have been what they were if not for the specific properties of the land, and the technical knowledge of the people who lived on and cultivated the terrain. 

It is important to recall, I think, that many if not most of the Earth’s products were once thought of in the way that we now think of the wines of Burgundy or the cheeses of Parma. So, for instance, over millennia the Banda islands attracted traders from many distant places: China, India, the Arab world and Africa. Many of those traders spent years living in the Bandas, and they would have been perfectly familiar with the techniques for the cultivation of nutmeg trees; nor would it have been at all difficult for them to smuggle out seeds and seedlings, to grow in their own countries. Yet none of them ever did that. Instead, for centuries, they undertook the difficult and dangerous journey across the Indian Ocean to the Banda Islands. The reason for this was simply that a nutmeg wasn’t a nutmeg unless it was from the vicinity of the Banda Islands, grown or processed by the Bandanese, just as the wines of Burgundy aren’t Burgundy wines unless they are grown by people who are intimately connected with the land and its products. 

It is exactly these connections that come to be ruptured by colonialism, as it evolved after the conquest of the Americas. Suddenly everything in the world is up for grabs, botanical species, minerals, and, of course, people as well. The nutmeg tree becomes a profit-generating machine to be planted wherever the colonizer pleases, and the people who have nurtured it over centuries become completely expendable. In that sense the Bandanese were among the first to suffer the ‘resource curse’, and today’s planetary crisis is nothing other than the unfolding of that curse on a planetary scale.

UM

The environmental and climate crisis is closely connected to inequalities and the unfair and unfair appropriation of resources. Migrations, with all the related tragedies, are a dramatic manifestation of the problem. Fashionable ecologism even becomes a way of eluding the actual nature of the problems. What can you tell us about it?

Amitav Ghosh

In my view inequalities of various kinds are at the heart of the climate crisis. One very important aspect of this geopolitical inequality. But gender inequalities are also vital. One of the saddest aspects of the crisis is that the voices of the women who have to walk farther and farther to fetch water, because of intensifying droughts, have never been properly heard. At the highest levels climate politics and climate discourse continue to be largely centered around the old, gendered power elites.

UM

Sundarban and the immense archipelago of islands that extend between the sea and the plains of Bengal are the theater, even metaphorical, of an important part of your narration. What are the reasons for this choice?

Amitav Ghosh

It was the Sundarban that opened my eyes to the threat of climate change. Even twenty years ago it was clear that large parts of the forest faced an imminent risk of inundation. However it is important to note that these impacts cannot be ascribed solely to climate change (this is a point that needs to be made in relation to several other issues as well, such as urban flooding). Human interference with the landscape has hugely magnified the impacts of sea-level rise in deltaic regions throughout the world. Because of dams and barrages, as well as the extraction of oil and water, river deltas around the globe are sinking at three to four times the rate of sea-level rise. In the case of the Sundarban there is the additional factor of cyclonic activity. 

The Bay of Bengal is a notoriously cyclone-prone region. Indeed the very word “cyclone” was coined in Calcutta in the 1840s by an amateur English meteorologist named Henry Piddington. Historically, Bengal, and the Sundarbans, have experienced some of the world’s most destructive storms. In 1737, a cyclone almost obliterated the city of Calcutta, which was then in its infancy. As sometimes happens with cyclones, this storm was accompanied by an earthquake and a storm surge that is thought to have reached a height of 40 feet (more than three times higher than the 12 foot wave generated by Cyclone Nargis). Two other cyclones in the region are known to have killed hundreds of thousands of people: the so-called Buckerganj cyclone of 1876 and the Bhola cyclone of 1970. The latter is thought to have killed as many as half a million people, and is reckoned to be the worst natural disaster of the 20th century. 

In recent years, advance warning systems, and improved procedures of evacuation, have hugely reduced the death toll exacted by cyclones. However cyclones continue to exact a terrible cost, especially in the Sunderbans, since the mangrove forest is the barrier that protects the interior of Bengal by absorbing the main impact of destructive storms. When Cyclone Aila struck the region in 2009 the death toll was, fortunately, much lower than was the case with earlier storms. But the long-term effects of the storm have been devastating nonetheless – many embankments were destroyed, and large stretches of once-fertile land were inundated with salt water. In the aftermath there was a huge outflow of people from the region. I am told that Cyclone Bulbul, which struck the Sundarbans in November this year, has also caused enormous damage.

One of the predicted effects of climate change is that it will intensify cyclonic activity. This means that the Sundarbans, and the Bengal delta, will be hit by many more devastating storms in years to come.

UM

An issue of particular importance is the persistence of denial of the climate crisis and of environmental problems and coexistence between peoples and cultures. Up to indifference. In the face of catastrophes we show that we are blind or turn away, after some manifestation of fear and concern which soon dissolves. How do you interpret all this? What prospects do you see?

Amitav Ghosh

One of the most important books on climate change is Kari Marie Norgaard’s Living in Denial: Climate Change, Emotions, and Everyday Life, an ethnographic study of a small Norwegian town. The inhabitants of this town (which is called ‘Bygdaby’ in the book) are wealthy, well-educated and politically conscious, with progressive views on issues such as migration and race. They are also extremely well-informed about climate change, which has impacted them directly in that it has affected one of their main sources of revenue – skiing and tourism. There is now less snow, hence fewer tourists. Yet in this town climate change is never discussed publicly and very rarely spoken of privately; nor are the people of the town, who are active on many political issues, at all interested in taking up this cause. What the book shows is that we cannot attribute inaction on climate change to ignorance (or ‘denial’), or to a lack of education, or to political apathy. 

There is an assumption among many climate scientists that proper ‘communication’ (or ‘getting out the message’) will lead to decisive mitigatory action. Underlying this assumption is the belief that people (and societies) are rational entities and that their actions are based on information that is presented to them. Unfortunately, this probably holds good only for universities and laboratories. In relation to societies and nation-states I think we need to consider other, far more troubling possibilities: that it may not be ignorance that prevents people from acting on climate change; that consciously or otherwise, most people already know. The problem lies somewhere else – perhaps, as you say, in our modes of imagining and thinking. 

The French philosopher Jean-Pierre Dupuy writes: ‘If we destroy nature is it because we hate nature? Of course, not – we merely hate one another.’  

He may well be right.

19 gennaio 2023

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Ultimi articoli

Sul trauma e sulla sua potenza ortopedica

NOTE PER UN APPROCCIO PEDAGOGICO ALLE GIOVANI GENERAZIONI Lavorare oggi come educatori nel mondo di giovani e adolescenti può...

Giovani curiosi o adulti in crisi?

Mi capita sempre più frequentemente, anche nella piccola realtà trentina, di selezionare giovani con idee molto chiare e con prospettive future completamente...

Mi trovo bene con Ann e Fry

Mi trovo bene con Ann e Fry. Oddio, bene? Diciamo che mi trovo meglio di quando ero costretta a stare seduta vicino...

Il primo lavoro: come cambia la percezione tra i ventenni di ieri e oggi

Entrare nel mondo del lavoro è sempre stato un momento carico di emozioni, aspettative e timori. Ma le paure e le sensazioni...

Ciottoli di me

Barcollo in queste vie lastricate zeppa d’incertezze noncurante di tutte le carezze che la vita mi dona una sola è la cosa che mi ustiona il...