Prima di iniziare una ricognizione, per quanto breve e necessariamente sommaria, sul rapporto fra cinema e nostalgia, è necessario togliersi dalla testa che la nostalgia abbia a che fare con il passato; la nostalgia si nutre certamente del passato ma è un fenomeno dell’oggi. L’industria culturale ne ha intuito la sua vendibilità e fin da subito l’ha orientata alla sua mercificazione. Per ragioni di spazio, ci limiteremo quindi a dare uno sguardo agli Stati Uniti, nazione giovane, in cui la mancanza di tradizioni è compensata da un sistematico ricorso alla mitizzazione del passato, e all’Italia. Nel cinema americano, i cosiddetti Nostalgia–movies hanno cominciato a circolare all’inizio degli anni settanta. Tra i primi film del filone vi è senza dubbio L’ultimo spettacolo (1971) del regista-critico Peter Bogdanovich. Girato in bianco e nero e pervaso, fin dal titolo, da un senso di morte, il film è la celebrazione della fine di un’epoca, da parte di un autore secondo il quale ”tutti i grandi film sono già stati realizzati, e a noi non resta altro che proporre una poetica della nostalgia”. Due anni dopo, è la coppia Lucas/Coppola, a produrre e dirigere American Graffiti (1973), in cui si raccontano vicende ambientate solo una decina di anni prima e situate in quella fase della storia degli U.S.A. caratterizzata da tragici eventi (l’omicidio Kennedy, la guerra nel Vietnam) e che verrà definita come la “perdita dell’innocenza”. Uno dei punti di forza del film di Lucas è certamente la colonna sonora che rilancia in termini commerciali il Rock and roll dell’era pre-beatlesiana, in totale controtendenza rispetto al cosiddetto progressive o al rock sinfonico (Yes, Genesis, King Crimson…) allora in voga. Ma soprattutto ciò che fa del film il capostipite di un vero e proprio genere cinematografico è il fatto che inventa la “nostalgia generazionale” (F. Davis: “senza nostalgia, non si dà generazione”), una modalità che da allora in avanti verrà replicata dall’industria culturale, di là e di qua dell’oceano, con formidabili risultati commerciali. Un altro tratto caratteristico è dato dal fatto che i personaggi sono tutti nella fase di passaggio tra adolescenza ed età adulta (in questo simile alla saga di Happy Days che non a caso va in onda a partire dal 1974) periodo, ancora una volta, che non può che essere oggetto di nostalgia da parte di spettatori adulti che, rivivendo sullo schermo la fase adolescenziale, si illudono di poterla prolungare all’infinito. Il revival dell’epoca della brillantina (v. Grease) proseguirà per una decina d’anni finché, nel 1983, il dittico coppoliano I ragazzi della 56’ strada e Rusty il selvaggio darà al filone nostalgico una patina definitiva di inquietudine e disincanto, celebrandone in qualche modo la fine. Anche in Italia, i primi esempi di cinema nostalgico risalgono agli anni settanta. E’ noto che il periodo fascista ha cominciato ad essere oggetto di rappresentazioni cinematografiche solo a partire dagli anni sessanta perché, evidentemente, fu necessario un periodo di “presa di distanza” da un regime che aveva goduto di un apparente consenso plebiscitario durante il ventennio mussoliniano, ma film come Il federale (1961), Tutti a casa (1960) o La lunga notte del ’43 (1960) non avevano proprio nulla di nostalgico. É l’Amarcord di Fellini, nel 1973 (guarda caso, lo stesso anno del film di Lucas), a sdoganare il sentimento nostalgico per l’Italietta in orbace, con un film che già dal titolo si pone come un affettuoso rimando al passato del regista riminese. Ovviamente, la nostalgia non riguarda il fascismo di per sé, che anzi viene sbeffeggiato come si conviene, ma riguarda ancora una volta un’età, quella adolescenziale, a cui immancabilmente si torna; età dai confini incerti dove più facilmente si possono, a distanza di tanti anni, individuare sia le radici di ciò che si è diventati, sia i rimpianti su ciò che si sarebbe potuto essere. Sono i babyboomers a inaugurare i fasti italiani del cinema degli anni ottanta, tra autobiografia e nostalgia. Secondo una famosa definizione, il periodo tra fine anni 40 e primi anni 60 ha sfornato il maggior numero di persone immature di tutta la storia dell’umanità ed era quindi fatale che, da immaturi, registi nati in quegli anni rivolgessero il loro sguardo al passato. Di questa categoria autoriale, anagraficamente caratterizzata, Nanni Moretti è certamente il personaggio più complesso, coabitando in lui istanze anche contraddittorie, contrassegnate come sono dall’autoironia (che è comunque un modo intelligente per occupare la scena senza passare per egocentrici), e da un certo severo cinismo che però presuppone, appunto, la nostalgia verso il periodo delle grandi narrazioni sociopolitiche pre-sessanttottine. L’apoteosi di questo atteggiamento di moralismo vintage (cfr. E. Morreale “L’invenzione della nostalgia” ed. Donzelli, 2009) è nei due film, Bianca (1984) e La messa è finita (1985), che rilanciano la carriera del regista romano dopo il parziale flop di Sogni d’oro. Nel primo, c’è il famoso discorso del preside della scuola “Marilyn Monroe” (geniale intitolazione che anticipa le derive pop degli anni successivi, culminate con le lauree “honoris causa” a Vasco Rossi, Ligabue, Lino Banfi…) in cui si celebra “l’epoca felice, incontaminata e pura fatta di armonia (Claudia Cardinale), bellezza (la Ferrari Dino), intelligenza collettiva (la Juventus di Omar Sivori) e l’uomo nella sua sintesi più alta (James Bond), prima che il ’68 distruggesse tutto”. Nel secondo la nostalgia prende le forme di uno struggente rimpianto verso l’infanzia che, nella predica finale, prima del ballo conclusivo sulle sarcastiche note di Ritornerai di Bruno Lauzi, richiama alla memoria le nugatine (analogia fin troppo scoperta con le madeleine proustiane) che la madre comprava, insieme ai primi mandarini della stagione, e che sottolinea come un presente fatto di infelicità non possa essere mitigato che dal ricordo di un passato felice.