La nostalgia dei soldati e dei migranti
A partire dal diciassettesimo secolo, sentimenti, affezioni e umori desolanti si riscontrano in un tipo di follia che si chiama nostalgia. La parola fu inventata dal medico Johannes Hofer (1669-1752). Malattia tipica dei soldati allontanati dalla loro terra, la nostalgia è differente dalla malinconia e dall’accidia. Se l’accidia è peccato dei monaci e la malinconia dolore degli intellettuali, la nostalgia è malattia del soldato lontano dai luoghi cari. Dopo avere investito il soldato di ventura, investirà il migrante. Nostalgia è una parola composta la nostalgia.
La pastorale cattolica, quando parla di acedia, o accidia, si rivolge alle masse contadine e agli ambienti monacali, l’antico discorso sugli eccessi umorali permane tra i ceti alti, in virtù della
necessità della guerra e delle trame del potere temporale. Rodrigo Borgia (1431-1503), Cardinale e Papa, mantiene, così come suo figlio il Valentino (1475-1507), eroe di Niccolò Machiavelli (1469-1527), le caratteristiche amorali, umorali e strategiche, di pertinenza del Principe.
Nostalgia dunque, composta dai due termini: nóstos, che significa ritorno e álgos, dolore, è dolore del ritorno. Si può dire in lingue diverse e, in ogni lingua, la patologia assume la propria specificità in relazione ai rapporti del soggetto con le sue radici. Così l’Heimweh tedesco è dolore per il focolare, il mal du pays francese lontananza dal proprio villaggio, la saudade brasiliana un male oscuro che ti prende fuori dai confini del Brasile. Il tango diventa cura della nostalgia per la madrepatria tra i migranti portoghesi, ebrei, italiani; il fado canta la lontananza da Coimbra, Sintra, Lisbona; la canzone napoletana recita: “E nce ne costa lacreme st’America a nuie napulitane… co’ nuie ca nce chiagnimmo ‘o cielo ‘e Napule comme è amaro stu ppane!”, quella milanese: “O mama mia, mi sont lontan, ma g’hoo la nostalgia del mè Milan”.
Tra le forme di cura della nostalgia c’è l’emergenza di nuove espressioni culturali che creano identità marginali dove si ritrovano i sentimenti comuni dei migranti e dei deportati, come il blues nordamericano, il lunfardo uruguaiano e argentino, gergo tipico dei migranti europei nelle periferie di Buenos Aires. Nelle aree malfamate di Montevideo e Buenos Aires si parla il lunfardo, che ora è entrato nella conversazione ordinaria. Non è una vera e propria lingua, benché esistano dizionari di lunfardo, si tratta piuttosto di un gergo, parte integrante del castigliano dei porti e delle zone di criminalità di queste due città. Emerge dalle parole dei migranti: italiani, portoghesi, ebrei, turchi, greci. Parole distorte, cha assumono significazioni diverse, mai completamente differenti. Marcano il fenomeno della nostalgia, popolare tra gli stranieri clandestini che s’insediano nei sobborghi di queste città. Il suono richiama la terra d’origine, parole gridate nelle piazze, sentite per le strade in gioventù, nel paese d’origine, ripetute prevalentemente perché il suono serve a sentire che ti stai portando dietro qualcosa. Bachicha (si legga bacicia) significa italiano, oppure grassoccio, che pensa solo a mangiare, il termine deriva da Baciccia, riduzione genovese di Giovan Battista; biografo è una persona fantasiosa; correr coneja è aver fame; il chantapufi (si legga ciantapufi) è un fanfarone; il malandra un delinquente; il linyera (leggasi lingera) è un vagabondo senza lavoro né casa; pelandrun è un tipo un po’ tonto; piantao è pazzo. Si riconosce la voce dell’immigrato dall’Italia del Nord nel bacicia, nel pelandrun, di quello portoghese nel piantao.
La borra del café, romanzo di Mario Benedetti, racconta un gruppo di ragazzini che, passeggiando nel parco del Capurro, a Montevideo, s’imbatte nel cadavere di un noto barbone, il Dandy. Lo guardano spaventati e, dopo essersi chiesti più volte come possa essere accaduto, se la battono. Del Dandy non si avrà notizia giornalistica immediata. Due o tre anni dopo, il narratore ascolta alla radio un tango che includeva questa strofa: “Y a veces cuando me aburro / recuerdo al Dandy, aquel vago / que en un miércoles aciago / cagó fuego allá en Capurro.”
In italiano mi suona così: “E a volte, quando mi tedio, / ricordo il Dandy, quel barbone / che un nefasto mercoledì / morì là, al Capurro”.
Ci sono due momenti di nostalgia, o forse tre: il ricordo della strofa, mai più ritrovata, quando il narratore rivive in melodia l’esperienza che aveva risvegliato un affetto. Bambini di fronte alla morte di un barbone, conosciuto con un epiteto, il Dandy. Chi fosse il Dandy lo sanno tutti, ma nessuno lo dice, il benpensante si vergogna di conoscere un barbone. Il soggetto narrante ascolta un tango via radio e ricorda un episodio di quando era più piccolo. Strana circostanza. La notizia della morte del Dandy arriva dopo in musica, in poesia, ricordo in metrica. La morte annunciata in lunfardo, cagar fuego, è volgare, minacciosa, evocativa di condotte malavitose, satirica. Come a esorcizzarla.
Nel Seicento europeo, tra i soldati di ventura, la nostalgia è considerata la più grave tra le malattie, affligge i mercenari in guerra. Spesso diventa un’epidemia, quando tra le truppe qualcuno intona una melodia, nota come Ranz de vaches, che viene suonata presso gli alpeggi svizzeri. I soldati colti da nostalgia vengono rimpatriati dai medici militari poiché viene ritenuta contagiosa e può minare il morale delle truppe. Invero secondo Kant la questione ha più a che fare col tempo che con lo spazio; non si tratterebbe dunque di un dolore del ritorno alla terra patria, quanto di un dolore del ritorno ai tempi della gioventù:
La nostalgia propria degli Svizzeri, la quale li coglie quand’essi sono sospinti in altri paesi, è l’effetto dell’aspirazione, suscitata dal ritorno delle immagini della serenità e delle compagnie giovanili, verso quei luoghi, ove essi godevano le gioie semplici della vita; ma essi poi, dopo una visita a quei luoghi, si trovano molto delusi nella loro aspettativa, e così anche guariti; ritengono che ciò sia perché colà tutto si è profondamente alterato, ma in verità è perché non vi ritrovano più la propria giovinezza. (Kant, I., Antropologia pragmatica, Roma, Laterza, 1969, p. 74)
I mercenari svizzeri che menziona Kant cadevano ugualmente in nostalgia ascoltando una melodia, un’ode al legame: il ranz des vaches. In quelle circostanze, più antiche, la parola celtica Loba evoca. Ripetuta più volte nel ranz des vaches, significa vacca, ma quel suono pieno di vocalità, Loba, muoveva qualcosa dentro le viscere dei soldati. La nostalgia è fenomeno sonoro, musicale, prelinguistico. Ciò che conta è il suono che la parola permette di emanare. Parola (parole) che non sta nel dizionario, parola evento. Qui l’origine celtica dei contadini svizzeri, là l’invasione degli immigrati europei in Uruguay, con i luoghi e i suoni del tango, che oltre a essere danza, è interdetto. Si tratta sempre di corpi che si muovono in una certa maniera accompagnati dalla melodia e dal ritmo, la metrica.
I soldati svizzeri, quando sentivano il ranz des vaches si ammalavano di nostalgia, il tango e il lunfardo erano invece una sorta di cura per starci dentro, per trasformarne i sintomi in segni di una vita nuova. Cura romantica per formarsi come persone diverse, per creare comunità nuove, fuorilegge. Interessante che entrambe le melodie, il tango e il ranz des vaches, furono presto bandite, l’una per tenere al margine una comunità infettiva, l’altra perché ammalava una comunità separata.
Carmela, migrante argentina, dice: “Quando rivedo le persone che ho amato sento le farfalle nella pancia”, bella espressione, piacere e tremore insieme. “Come nel tango?” Lei precisa: “Il tango viene dopo”. La nostalgia di Carmela è un suono con tre movimenti: l’incontro le fa sentire le farfalle nella pancia, la predispone. Segue il tango, nostalgia vera e propria. Infine la melodia, Carmela è musicista. Il suono cura, ammala, evoca, affeziona. Il suono non è segno, è oltre il rumore e prima del significato; non è chirografico, né sintomatico. Non stiamo parlando di medicina, non si tratta di guarire, non stiamo nemmeno parlando di linguistica perché il suono non è puro significante. Non significa qualcosa, significa nulla.
Non fate sparire i suoni della nostalgia dal mondo, saremmo condannati a una banale eternità. Non permettete ai migranti di rientrare. Ci si lasci vivere, quasi sempre, ormai a disagio.