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Quando il passato sconfina nel presente e nel futuro

Autore

Rossana Sisana
Psicologia e psicoterapeuta.

Mi attraversava con i suoi occhi grigi, scavati, affamati di vita. 

Il corpo esile e flessuoso custodiva l’impeto di chi attende, un’energia sommersa, presente e densa che faceva affiorare, da quelle braccia pallide, nervi tesi come corde di violino.

Tutto si concentrava nell’attimo prima, ogni cosa era sospesa in lei e l’inquietudine la faceva rimbalzare nella stanza come la pallina di un flipper. Così i suoi pensieri intrecciavano ricordi vividi e immagini offuscate in una danza libera a cui il corpo si piegava suo malgrado. Senza tregua, senza sosta, senza perdono.

Poltrona, sedia, pavimento, divano, finestra. La casa della nonna, il paradiso e la morte, la bolletta da pagare, la marmellata di pesche, il pacchetto di sigarette, lui. E ancora divano, poltrona, sedia, finestra, pavimento, tutto da capo e tutto diverso come un fiume in piena che travolge e stravolge. 

Parola dopo parola la narrazione si spogliava di tempo e logica. Affondi improvvisi rasenti l’abisso, equilibrismi improbabili e lunghe divagazioni effimere su inciampi quotidiani.

Il passato sconfina nel presente e nel futuro, il reale nell’immaginario, la storia nella speranza, il dolore nella nostalgia. Un vortice che condensa percezione ed emozione e le fa gravitare attorno al desiderio, all’assenza che invoca il ricordo della presenza e brama la cura.

Una manciata di giorni e mesi l’avevano cambiata per sempre. Un grembo colmo di passione e sogni. Un cuore che si fa culla. Quel battito esisteva nella carne e nel pensiero e aveva già un nome. Esisteva, era presenza materica e trascendenza. Si era fatto spazio tra infinite paure, notti insonni, ansie, dubbi e ripensamenti. Si era fatto spazio trasformandola: i seni floridi, le lacrime improvvise, le risate, il sonno da combattere. Era nascita e rinascita di una forza sconosciuta e inebriante. Portava con sé la luce, la speranza di una dimora affettiva per entrambi.

Tutto si dissolveva nell’attimo dopo, ogni cosa si era spezzata in lei, ogni respiro la portava lontano, inesorabilmente. Non conosceva a fondo la presenza ma l’assenza era insopportabile, silenziosa ed assordante insieme. Un vuoto sterile la divorava, pezzo dopo pezzo, istante dopo istante, lentamente e scrupolosamente affinché l’ebrezza, che l’aveva travolta, svanisse nel languore.

Da allora il tempo era collassato su sé stesso, sprofondando in un labirinto di paesaggi interiori inaccessibili e lei riusciva solo a lasciarsi trasportare dalla corrente, a guardare dal finestrino a resistere senza combattere. Quando la incontrai erano passati anni ed era ancora lì, immersa nella sua vischiosa malinconia, consacrata al tormento, priva di redenzione. Giudice e carnefice di sé stessa, colma di domande senza risposta. Un’eco nella sua mente continuava a proclamare ciò che era stato e ciò che avrebbe potuto essere.

Eppure, quel miracolo abitava in lei, in ogni sguardo e in ogni respiro. E all’improvviso se ne accorse…

I confini si erano dissolti, esisteva nel suo mondo, portava il suo profumo e vestiva la forma di un abbraccio. La foglia non calpestata, il fiore non colto, lo stesso mare. Il suo volto trasaliva a quel pensiero e le labbra sbocciavano in un sorriso timido d’infinita dolcezza. Poteva tenerlo con sé, in quel sentimento di nostalgia che contiene il reale e l’irreale, che contempla la perdita e accarezza il sogno.

La sua bellezza era tutta lì, il dolore e l’amore fusi insieme nel canto di un corpo.

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