Non c’è potere che, per espandersi o per resistere, non necessiti di un elaborato strumentario simbolico [Gustavo Zagrebelsky, Simboli al potere. Politica, fiducia, speranza, Einaudi, Torino 2012]. Nella celebre classificazione delle forme di potere, Max Weber ne individua tre criteri di legittimazione: carismatico, tradizionale, razionale-legale [Max Weber, La politica come professione, in Id., Il lavoro intellettuale come professione, a cura e con un’introduzione di Massimo Cacciari, Mondadori, Milano 2018, pp. 49-130]. Ciascuno di essi, nella prospettiva del giurista, rimanda a un universo di simboli: il primo prettamente afferente alla sfera religiosa, il secondo ancorato all’ipoteca della storia, il terzo fiducioso nella ragionevolezza di procedure trasparenti e giuridicamente verificabili.
Chi si occupa diacronicamente di processo criminale sa che, nelle società primitive, la pratica della vendetta, il “giudizio di Dio”, l’intervento diretto del soprannaturale nel dirimere le controversie umane corredavano il ‘rito’ (lemma non casualmente rimasto nel nostro lessico) di un assetto, un’iconografia, una scenografia assimilabili al cerimoniale religioso. Questo apparato persiste, in larga misura, nell’Inquisizione medievale e moderna, nella giustizia feudale, persino nelle codificazioni otto-novecentesche, che spesso – almeno con riferimento allo stadio istruttorio – conservano un’impostazione a-simmetrica del processo giacché attribuiscono al giudice una posizione, anche fisica, di primazia sul giudicando, sul suo difensore, sugli spettatori ‘terzi’.
Analogo ragionamento può svilupparsi rispetto al legislatore. Non è necessario risalire a Numa Pompilio, che simulava di consultare le ninfe per dettare le sue leggi e così si ammantava di un esplicito potere sacrale, diretta emanazione della volontà divina. Quando, alla fine del Medioevo, dopo secoli di priorità del ius dicere, il condere leges ritornò attributo precipuo della sovranità, anch’esso si rivestiva di simboli inequivoci e di matrice essenzialmente religiosa, sul presupposto che il principe agisse nomine Dei.
Non sorprende che le organizzazioni criminali, e in misura ovviamente più accentuata quelle di grosso calibro, riproducano dinamiche simmetriche. Da tempo, del resto, sulla scia d’un caposaldo della letteratura giuridica novecentesca [Santi Romano, L’ordinamento giuridico, Mariotti, Pisa 1917], è stato autorevolmente ipotizzato [Antonio Pigliaru, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Giuffrè, Milano 1959] che le comunità extra legem, in quanto ‘istituzioni’ (imperniate intorno a un vertice, strutturate mediante propri organismi e rivolte a una comunità di adepti), possano dar vita a veri e propri ordinamenti, dotati di proprie regole sostanziali e processuali e di autonomia (ovviamente de facto) dall’ordinamento statuale.
Di questo assetto la mafia costituisce laboratorio privilegiato. E, come avvenuto per secoli nell’àmbito dei poteri ‘legittimi’ (imperiale, papale, monarchico, comunale, feudale), anch’essa si è munita d’un fitto reticolo di simboli, del quale si avvale sia per vincolare la comunità a regole ferree (per lo più, carismatiche e tradizionali), sia per pronunciarsi sulla violazione delle medesime regole (con metodi, il più delle volte, ben più sbrigativi e presuntivamente più efficaci di quelli adoperati dalla giustizia ordinaria; efficacia che genera, a sua volta, consenso e intimidazione). Per quanto possa apparire paradossale, il linguaggio di quei simboli, che pure esprimono un grado assai elevato di insubordinazione e di illiceità, è permeato di ‘valori’, ossia attinge a una presunta etica dell’onore, del rispetto, dell’inviolabilità dei patti di sangue.
L’obiettivo di tale universo simbolico è assimilabile a quello che giustificò la nascita del feudo in Occidente. Gli storici sono convinti che l’origine più plausibile del meccanismo feudale debba ricercarsi nel grave deficit di sicurezza pubblica e privata: il rapporto tra dominus e vassallo assicurava, cioè, a quest’ultimo, nonché ai soggetti a lui gerarchicamente sottoposti, tutela e sostentamento. Un fenomeno non dissimile accompagna la nascita e il proliferare dell’organizzazione criminale, la quale – anche attraverso la sua strategia simbolica – assicura immediata protezione a popolazioni che non riescono a rinvenire nelle istituzioni civili né una protezione materiale né la garanzia di condizioni di sviluppo economico o, talora, di sopravvivenza.
Piuttosto che indugiare sui rituali che connotano i nuclei criminali più noti in Italia, si preferisce, qui, offrire qualche incursione nelle simbologie delle organizzazioni criminali straniere a cui l’autorità giudiziaria italiana ha riconosciuto le connotazioni tipiche della ‘mafiosità’, ossia la mafia nigeriana, quella cinese e, solo di recente, quella romena.
La criminalità nigeriana, nonostante sia composta da una pluralità di gruppi indipendenti, si presenta compatta e dotata d’una peculiare fisionomia. Tutti i gruppi presentano una struttura verticistica che prevede una separazione dei ruoli. Solo i capi detengono il potere di decidere chi può essere ammesso al gruppo, il più delle volte un soggetto che essi hanno già scelto e che non può rifiutarsi di accettare. Come per le mafie italiane, sono previsti riti di affiliazione – che, nella maggior parte dei casi, si celebrano nello stesso giorno in tutte le nazioni – e il pagamento di una ‘tassa di iscrizione’ utilizzata per il sostentamento delle famiglie degli affiliati detenuti.
Le ritualità magiche o fideistiche costituiscono un fattore di coesione molto forte che, insieme all’appartenenza etnica e all’autorevolezza delle organizzazioni in madrepatria, realizzano una totale condizione di assoggettamento e coartazione psicologica. La forza intimidatrice delle organizzazioni criminali nigeriane è legata alle tradizioni locali, che risultano permeate da un fideismo atavico, sintetizzato dalle pratiche voodoo o ju-ju capaci di sprigionare acuminata violenza. A differenza di quanto comunemente si ritiene, il vodoo non è un fenomeno legato solo alla magia nera, ma una religione a tutti gli effetti, ed è dotato di un profondo corpus di dottrine morali e sociali, oltre che di una complessa cosmologia. Dalle organizzazioni criminali esso viene utilizzato nella sua accezione negativa per legare le vittime ai propri sfruttatori, così che queste non si sentano mai sicure in qualunque posto riescano a scappare. Per mezzo dei riti voodoo o ju-ju si crea – come l’autorità giudiziaria non ha mancato di sottolineare – un legame di sopraffazione attraverso il ricorso alla magia (nera o bianca), al sacrificio di animali e alla minaccia di morte quando lo spirito invocato venga infranto.
«Temendo che una volta giunta in Italia avrei potuto rompere l’accordo, Mary mi sottopose a un rito voodoo. Più precisamente incaricò un Baba, cioè uno stregone, di eseguire il rito voodoo. Mi fece tagliare tutte le unghie delle mani e dei piedi e un ciuffetto di capelli, poi mi chiese una mia mutandina. Mise il tutto in un foglio di carta con il mio nome scritto sopra, dicendomi che se avessi rotto l’accordo avrebbe effettuato un maleficio. Se al contrario avessi mantenuto l’accordo avrei potuto riottenere il contenuto».
Diverso il rito di Linda O, come si evince dalle dichiarazioni rese alla Squadra mobile di Napoli:
«Madame Sonia, temendo che una volta giunta in Italia avrei potuto rompere l’accordo preso, mi sottopose a un rito voodoo. Più precisamente incaricò uno stregone di eseguire il rito voodoo. Mi bendò e mi fece bere sangue di gallina, mentre ripetevamo insieme una preghiera e riconfermavo la promessa di restituire tutti i soldi che mi aveva chiesto Madame Sonia. In caso di rottura dell’accordo tutta la mia famiglia avrebbe subito dei malefici». Entrambi gli episodi sono riportati da Sergio Nazzaro, Fort Alamo. La criminalità nigeriana e la tratta degli esseri umani, Città Nuova, Roma, 2022 pp. 139-145.
La diffusione dei riti voodoo aveva allarmato particolarmente la comunità istituzionale nigeriana al punto che il 9 marzo 2018 a Benin City, Oba Eware II, la massima autorità religiosa presente in Nigeria, ha emesso un editto che spezzava le catene tra le maman e le giovani donne nigeriane divenute vittime. Le richieste pressanti provenienti dalla comunità internazionale e, verosimilmente, una lauta donazione economica hanno spinto l’ambasciatore nigeriano a praticare un esorcismo collettivo con cui liberare le ragazze che avevano giurato davanti ai Baba-Loa rovesciando gli spergiuri sulle maman.
L’esorcismo collettivo, se in un primo momento aveva fatto registrare un aumento delle denunce sporte dalle vittime di tratta, con il trascorrere del tempo ha perso la sua potenziale efficacia riportando il numero delle segnalazioni entro i parametri originari.
La mafia nigeriana è comunemente riconosciuta come la più violenta tra le mafie individuate sul territorio italiano. Alla violenza psicologica si accosta anche la violenza fisica come principale forma di punizione per il mancato rispetto delle regole interne. Non a caso, ciascun gruppo cultista prevede tra i propri affiliati coloro che sono chiamati a svolgere la funzione di picchiatori.
Anche la mafia cinese risulta connotata da un autentico cemento interno che non si esaurisce nella predisposizione di regole. L’organizzazione delle triadi è strutturata in modo verticistico. Ogni scalino della gerarchia è contraddistinto da un numero, il cui significato è da rintracciarsi nella simbologia taoista. Ricorrente è appunto il numero 4, in onore a un’antica tradizione cinese che vuole il mondo circondato da quattro mari.
Al vertice è posto il numero 489. Esso rappresenta la Testa del Dragone o Signore della Montagna, il cd. San Chu che rimane in carica fino alla morte. Sotto di lui è collocato il cd. Fu San Chu: si tratta del Vicario del Capo che viene contraddistinto dal numero 438. Tale numero può essere attribuito anche al Maestro d’incenso, il cd. Heung Chu che vigila sul cerimoniale di affiliazione; al Meng Zheng,ossia al Garante delle Alleanze, nonché al Guardiano del Vento o Sing Fung che sovrintende alla sorveglianza interna. Le figure contrassegnate dal numero 438 fanno parte dell’avanguardia dell’organizzazione e possono essere insignite del titolo di doppio fiore che svolge le mansioni di tesoriere. Sul gradino successivo sono poste tre posizioni contrassegnate dal numero 415. Questa cifra identifica il cd. Pak Tse Sik,cioè il Ventaglio di Carta, colui che si occupa del lato economico, ricercando risorse e fornendo consigli; il 426, Hung Kwan ovvero il Guerriero chiamato a controllare e gestire l’ala militare e le azioni difensive ed offensive; e il 432 cioè il Sandalo di Paglia o Chao Hai,deputato a tenere i contratti fra i vari affiliati e a comunicare loro le decisioni dei vertici. Infine, il gradino più basso della piramide è occupato dai 49, numero con cui vengono identificati i membri ordinari, i soldati, i ccdd. sey kow jai e le blue lanterns,ossia coloro che non sono ancora stati affiliati all’organizzazione.
Dalla configurazione della struttura interna della mafia cinese deriva la diffusa convinzione che sia improprio accostarla a una piovra e che bisognerebbe, invece, paragonarla a un dragone con più teste.
Per entrare a far parte dell’universo criminale cinese è indispensabile seguire un rito formale attraverso il quale giurare fedeltà e obbedienza al gruppo criminale. «Secondo la tradizione, di fronte a un altare, avvolto dai fumi dell’incenso, il Heung Chu, il Maestro di cerimonia, trancia di netto la testa a un gallo ancora vivo e raccoglie il sangue in una coppa, attento a non farne cadere neanche una goccia. Aggiunge vino, cinabro, zucchero e agita lentamente il calice. Poi incide con una lama il dito dell’iniziato e mescola il sangue umano col resto della mistura. Il novizio poggia la lebbra sull’orlo della coppa e beve. Quindi solleva all’altezza degli occhi la pergamena che tiene in mano e legge. “Se un membro della Società si troverà in difficoltà tutti accorreranno in suo aiuto. Se io, vale a dire il futuro membro dell’associazione, romperò il giuramento, le spade cadranno e mi bruceranno”. La pergamena brucia nell’incenso, l’iniziato passa sotto un arco di daghe e recita le trentasei promesse di fedeltà e fratellanza. Il rito della morte e della rinascita è compiuto, il novizio assume il rango di sey know jai, cioè di soldato dell’organizzazione. Da adesso è legato per sempre ai suoi confratelli. La triade è la sua nuova famiglia» [Giampiero Rossi – Simone Spina, I boss di Chinatown. La mafia cinese in Italia, Melampo, Milano 2008, p. 131].
Nell’ambito delle operazioni di contrasto ai gruppi strutturati va inserito il recente arresto della Corte di Cassazione (2021) che ha riconosciuto, per la prima volta, la qualificazione mafiosa a un sodalizio rumeno operante nella città di Torino e oggetto d’indagine sin dal 2012. Gli esiti dell’inchiesta hanno evidenziato la struttura gerarchica del gruppo organizzato. Essa consta di gradi ben definiti: padrino, generale, soldato e nipote. Altre figure riscontrate sono quella di freccia,con cui veniva indicato il soggetto che doveva immediatamente rispondere agli ordini dei generali e quella di sclav o schiavo che designava il factotum. Gli affiliati, per sentirsi parte di una squadra, erano soliti tatuarsi una grande croce dei templari sul corpo.
L’attività degli inquirenti, e non solo in Italia, sta sempre più disvelando la profonda metamorfosi in corso. La globalizzazione della criminalità organizzata sta determinando l’abbandono dei modelli arcaici, che si ripercuotevano anche sul piano simbolico, e sta favorendo la tumultuosa crescita delle forme di illegalità ‘virtuale’, che smaterializzano il vincolo associativo e lo traspongono in una diversa dimensione. Dinanzi allo studioso del fenomeno mafioso (nella prospettiva giuridica, criminologica, socio-antropologico) si apre un nuovo orizzonte: l’impatto dell’informatizzazione comporterà la nascita di nuovi riti e nuove simbologie.