Sollevo lo sguardo e la vedo arrivare quando ancora è in fondo alla piazza. Ho giusto un attimo per salvare il file, spegnere il computer e sgranchire un po’ gli occhi prima che mi raggiunga al tavolino. So che questo tempo non mi basterà per riemergere mentalmente dalla tesi che sto scrivendo e rientrare nella vita che mi circonda, cosa che risulta faticosa quanto uscire dal buio del cinema in un pomeriggio di sole. Credo che sia un effetto conosciuto da chiunque si occupi – direttamente o indirettamente, come nel mio caso – di entrare nelle pieghe delle vite e del dolore degli altri, ma faccio lo sforzo: mi alzo, e una volta chiuso il computer le uniche pieghe di cui mi preoccupo sono quelle della mia camicetta, che provvedo diligentemente a lisciare. Nel frattempo, lei ha fatto slalom tra i tavolini ed è arrivata a quello che per le prossime ore sarà il piano d’appoggio di conversazioni che come saranno ancora non lo so: di che cosa parleremo? Che cosa ci dovremmo dire dopo mesi in cui, per la prima volta in tanti anni, ci siamo sentite poco e viste mai? C’è un imbarazzo strano e scomodo, che cerchiamo entrambe di esorcizzare con un abbraccio e un saluto dal tono entusiasta, forse un po’acuto, ma decisamente sincero. Stringendola mi accorgo che è esile, di più rispetto all’ultima volta, e capisco al volo che la domanda che voglio farle è più complicata di quanto pensassi. Allora, come stai? Lei però mi precede, e prima che io possa parlare ammonisce, ridendo, lo stacanovismo che mi ha spinta a portare il computer addirittura al bar, per poter sfruttare ogni momento utile per proseguire col mio lavoro. Mi giustifico con le solite frasi, che sono vere ma escono dalla mia bocca in maniera standardizzata: «Lascia perdere, la consegna è tra una settimana e sono agitatissima!». Lei con un gesto della mano neutralizza la possibilità che non riesca a fare un buon lavoro in tempo e sposta la sua attenzione sulla cameriera, che prende le nostre ordinazioni con un sorriso rosso rossetto. Quando arrivano i nostri aperitivi, lei, che nel frattempo si è sistemata sulla sedia di fronte a me, circonda il suo bicchiere con le dita e picchiettando sul vetro con le unghie colorate di azzurro mi chiede: «A parte gli scherzi, come sta andando con la tesi?». Io non gliene vorrei parlare, ma so che sa qual è la domanda che voglio farle ed è chiaro che la sta evitando in tutti i modi, quindi lascio che sia lei a guidare. Dice di ricordarsi che mi sto occupando di una ricerca sulle donne che sono sopravvissute ai campi di concentramento nazisti, ma immagina che queste poche parole non rendano l’idea di quello che sta dietro, o meglio dentro, questo macro tema. Centro i suoi occhi con lo sguardo e spero di riuscire a farle capire senza parlare quanto sono colpita dalla sua capacità di cogliere le cose con una profondità insolita. Le dico che è vero, che parlare di donne sopravvissute all’Olocausto e rientrate a casa non significa parlare di persone che spensieratamente e con sollievo tornano ad una normalità agognata, ma di individui con addosso i segni di un potere che per mesi è stato schiacciante su di loro. Un potere che non ha conosciuto limiti, che non ha solamente recluso, disciplinato e impedito il movimento dei suoi assoggettati, ma che ha agito anche su un piano identitario e che in maniera freddamente intelligente ha fatto leva sul corpo e soprattutto sui suoi simboli.
A questo punto della conversazione faccio una piccola pausa e aspetto la reazione di lei, che potrebbe, ugualmente a tutti gli altri, fare un commento commosso riguardo all’annientamento dell’identità individuale perseguito nei campi di concentramento attraverso il potere simbolico della rasatura dei capelli, del tatuaggio col numero di matricola e dell’imposizione della stessa divisa a tutti e a tutte. Questo, però, non succede, proprio perché lei, che sa cogliere la complessità delle cose, capisce che non voglio arrivare lì, al punto in cui tutti coloro che nascono e crescono in Occidente prima o poi arrivano nei loro ragionamenti sull’Olocausto. Lei mi guarda e aspetta, sicura che sia qualcos’altro quello che voglio dire. È vero: leggere le memorie di chi ha vissuto il lager fa emergere in maniera evidente che l’annientamento dell’identità individuale è passato soprattutto attraverso un piano simbolico e che però non si è accontentato di quelle manifestazioni palesi che tutti abbiamo imparato a conoscere. Ha agito in maniera più sottile, andando a negare un’innumerevole serie di cose, di atti che quotidianamente scegliamo di fare non perché abbiano un’utilità pratica, ma semplicemente perché sono dei simboli, letteralmente dei vuoti che mettono insieme una cosa e un significato. Se ci fermiamo a osservare, ci rendiamo conto che la nostra identità è fatta di questo: tante piccole scelte, estetiche e non solo, che riempite di significati indicano come dei semafori chi siamo agli altri, ma soprattutto a noi stessi.
Dico queste cose mentre osservo il suo smalto azzurro, i suoi capelli raccolti in un modo apparentemente casuale, l’eyeliner e il mascara sulle ciglia, e penso alle memorie di alcune donne che sono rientrate a casa dopo l’esperienza concentrazionaria e che ho avuto modo di incrociare nel corso del mio lavoro. Quasi tutte scrivono che il momento in cui sono tornate a sentirsi vive davvero non ha corrisposto solamente con l’arrivo dei soldati liberatori, ma con la recuperata possibilità di tornare a dedicarsi a quei «soliti atti di vanità». Mi tornano in mente le parole di alcune di loro a questo proposito e le lascio fluire quasi letteralmente, perché credo che sia l’unico modo per rendere davvero l’idea di quello che sto cercando di dire. «Un pezzo di stoffa, un fazzoletto sulla testa e ti sentivi una donna, e allora magari coprivi i capelli che crescevano come gli pareva. E se pensi ai capelli… è una cosa da donna, no?». «Abbiamo deciso di comprarci un rossetto. Può immaginare, in quelle condizioni… Ma anche brutte com’eravamo, scheletrite e malaticce, volevamo che ci venisse almeno restituita la nostra femminilità. Sentivamo che ci avrebbe aiutate a raccogliere il coraggio per tornare a casa». Gesti normali, simboli quotidiani, ma che hanno avuto la forza di restituire loro un’identità e una libertà come nessun soldato sovietico o americano avrebbe mai potuto fare.
Mi fermo di nuovo e di nuovo incrocio il suo sguardo. Improvvisamente ho paura di quello che ho appena detto. È vero che non ci siamo quasi sentite negli ultimi mesi, sia prima che durante il lockdown, ma so che lei li ha passati chiusa in casa con una persona di cui si fidava e che proprio per questo è riuscita a instaurare e mantenere un controllo psicologico su di lei, impedendole di vedere altre persone, di scegliere che cosa mangiare e come vestirsi, di truccarsi, colorarsi le unghie o farsi la piega ai capelli. Per questo ora mi chiedo se raccontandole queste cose mi sono spinta troppo oltre o se invece ho intercettato qualcosa che lei stava pensando, che stava in un certo senso vivendo e che magari aveva bisogno di esprimere, di fissare in un ragionamento. Questo non lo so, non glielo chiedo, ma lei sembra comunque intercettare i miei pensieri quando, prima di ingoiare l’ultimo sorso dell’aperitivo e cambiare argomento, dice solamente: «Il giorno della mia laurea lui non c’era e ho messo lo smalto per l’occasione. In tutte le foto, nascondo le mani».
NOTE
L’espressione «soliti atti di vanità» riferiti alla cura del corpo all’interno dei lager è presa in prestito dal contributo di Katharina Kraske, Il corpo come testimone. La corporeità come esperienza centrale del lager nelle testimonianze di Primo Levi e Liana Millu, nella rivista «DEP: deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile» (n. 29, 2015, pp. 43-55).
Le due citazioni delle memorie di due donne sopravvissute sono da attribuire a Virginia Gattegno la prima e a Natalia Tedeschi la seconda e sono entrambe riportate nel volume di Elisa Guida, La strada di casa. Il ritorno in Italia dei sopravvissuti alla Shoah (Roma, Viella, 2017, pp. 189-190).